Nel caso in cui vi foste persi la 52esima performance firmata da Vanessa Beecroft (Genova, 1969, vive a Long Island, New York), nel 2003 al Castello di Rivoli, potrete goderne una riedizione speciale che Lia Rumma ha organizzato per il pubblico napoletano.
VB52, che rispetta l’usanza dell’artista di intitolare i suoi lavori a partire dalle proprie iniziali, costituisce un passo ulteriore in quell’unica grande opera che è il percorso creativo dell’artista genovese. Un continuo inseguirsi di variazioni intorno ad un tema centrale: la messa in scena del corpo. Trentadue commensali, tutte donne, per sette ore cenano intorno ad un lungo tavolo trasparente, dove si alternano cibi accomunati dalle tonalità cromatiche. Prima tutti bianchi, poi tutti rossi, quindi verdi, arancioni e viola. Questa ripetitività monocroma, che viene ad essere accentuata nella sua monotonia dalla stessa inessenzialità minimale del tavolo, scandisce i tempi di questo banchetto “classico”, che stride nella sua ridondanza rituale con l’ambiente che l’accoglie. Roberta Smith, in un articolo pubblicato sul New York Times, ha sottolineato la “logica antropologica” che guida i lavori della
Beecroft è nata a Genova da madre italiana e padre inglese. Nelle sue performance, quasi sempre popolate da donne, indaga le manie e le nevrosi della società contemporanea, ma spesso si rinchiude in una ricerca formale di speciale vigore. I riferimenti alla storia dell’arte sono molteplici e costanti: dai preraffelliti al Barocco, dal Rinascimento a De Chirico, il suo lavoro dialoga sempre con quella tradizione da cui proviene e alla quale s’ispira per rileggere la contemporaneità. Le performance parlano della sua visione del mondo e del suo vissuto, ma il suo intento è creare opere che sfuggano alla prigionia dell’individualità per proiettarsi in una dimensione comunitaria universalizzante. Le modelle stesse, incarnazione della sua vis interiore, sono estraniate mediante mascheramenti dalla loro stessa particolarità. Così, diventando maschere, incarnano il dramma dell’uomo nella sua essenza più pura.
”La ripresa del ‘libro del cibo’ –spiega– già utilizzato in VB01 e VB02, era soltanto marginale; qui m’interessava molto di più lavorare sull’espressione, sui colori e sulla forma. Quello che volevo era un banchetto pieno di cose da inserire in un ambiente minimale, infatti, avrei voluto ancora più cibo sul tavolo”. A questo trasbordare viene poi contrapposta la neutra stanca accettazione da parte delle astanti. Tutto ciò emerge con inquietante chiarezza dal video che ne è stato tratto.
Efficace l’istallazione pensata per l’occasione: il grande tavolo, preceduto alle pareti da due immagini fotografiche della performance, si distende disadorno in un’atmosfera asettica e cupa per tutto lo spazio oblungo della galleria sulla cui parete di fondo si proietta il video.
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