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Ci sono cinque sensi e il sesto è il pensiero ovvero la cosa più straordinaria che l’uomo possieda, e che non ha niente a che vedere con la natura”. Proprio quel sesto senso sembra esser stata l’unica vera materia prima dell’operare di
Alighiero Boetti (Torino, 1940 – Roma, 1994), poverista non troppo “povero” e concettuale non così “smaterializzato”. Il pensiero come facoltà superiore, capace di comprendere il “
manifestarsi del disegno delle cose”; l’idea che detiene il primato sull’esecuzione, affidata ad assistenti ufficiali e non ufficiali, alle donne di Kabul, al libero e casuale succedersi degli eventi.
C’è praticamente tutto quel che serve, in questa mostra, per conoscere la ricerca poliedrica di Boetti e comprenderne le tematiche portanti: la dialettica tra concetti opposti, gli sdoppiamenti, la riflessione sul tempo, l’oggettivo che si fa soggettivo e viceversa.
Il percorso espositivo vuole quindi riproporre una circolarità, i cui punti focali sono ben definiti dalla struttura stessa del terzo piano del museo: da una parte l’ingresso dominato dalla riproduzione fotografica di
Oggi venerdì ventisette marzo millenovecentosettanta, che si fa traccia ideale della specularità ricercata anche sul piano dell’allestimento; dall’altra la sala dove sono concentrati alcuni dei lavori più interessanti degli anni ’60, tra i quali
Io che prendo il sole a Torino il 19 gennaio 1969 e il fotomontaggio
Gemelli, primo passo verso quella scissione poi consacrata dall’aggiunta della “e” tra il nome e il cognome. Il tutto presentato “a ritroso”, ovvero partendo dagli anni ‘90 per arrivare ai ‘70 e ‘60, forse i più documentati.
Una mostra che si presenta dunque come completa e che si estende anche alla sala polivalente del museo – con le installazioni
Alternando da uno a cento e viceversa e
Oeuvre postale – e al cortile, dove nel suo ultimo autoritratto l’artista si presenta intento a innaffiarsi ironicamente il capo con una pompa.
Ad accompagnare il visitatore, non pannelli didattici ma le parole di Boetti, chiavi passepartout per accedere alla profondità della ricerca dell’artista e per scoprire i passaggi di realizzazione delle opere, come per i
Viaggi postali del 1969-70. Unica nota negativa? La non troppo felice collocazione di alcuni video, penalizzati dall’allestimento eppure estremamente interessanti per un’ulteriore riflessione sul senso della ripetitività dell’azione, già evidente nei lavori di ricalco dei fogli quadrettati, nonché nei riempimenti a penna biro.
Tutto il resto è “
non estetismo che proviene dalla grazia di Dio, ma così, normalmente”, un’apologia delle cose primarie, di quel mondo “
fatto com’è”, che ritrova la sua colorata bellezza grazie alle numerose mani afgane chiamate a ricamarlo.
Una ricerca, quella di Boetti, costante e curiosa, che trasforma gli ordini mentali trascrivendoli in disordini visivi, rivendicando la componente materica e percettiva a scapito di quella puramente concettuale.
Ecco la forza di tutto il lavoro boettiano: la perfetta integrazione di manuale e mentale, la sintesi delle dicotomie in un concetto più grande, generale, collettivo. La forza “
del far parlare il corpo in silenzio” e la forza del pensiero. Quello che governa le emozioni e che è in grado di riportarci a quando, in tempi antichissimi, “
eravamo forse più vicini agli dei”.