Ci si augura sempre che una mostra, oltre a essere un viaggio visivo, fornisca delle bussole conoscitive. La ricostruzione dell’arte di
Giuseppe Manigrasso (Taranto, 1946) ha questo merito: è la delineazione ottica di una personalità acuta e raffinata, ma anche un’immersione storica nell’irripetibile fermento partenopeo degli anni ’70. Eppure, i documenti e la ricostruzione non soffocano la restituzione dell’aura di energetico rinnovamento, ma si integrano, grazie all’allestimento che li alterna fluidamente alle opere, nel ricreare uno spazio narrativo quasi leggendario.
“Poeta dello spazio” è appunto Manigrasso, che pur nell’eclettismo mira sempre alla plasmazione, coscientizzazione, permeazione creativa dell’ambiente, affermando: “
È operazione artistica crearsi uno spazio a propria immagine. Questa è la mia operazione”.
Spazi veri realizza infatti in una “
casa di foglie”, sogno di pacificazione con lo spazio naturale.
“
Sentiva lo spazio”, Manigrasso, riferisce il fedele compagno di scorribande creative,
Fabio Donato (Napoli, 1947), le cui documentazioni fotografiche offrono lo stimolo di un dinamico slittamento semantico delle opere ritratte. I
n avanti, verso il commento sovra-testuale inevitabilmente insito nell’interpretazione fotografica, e all’indietro, verso la fonte archetipica del
senso del momento, secondo la distintiva cifra di Donato.
Il rapporto di Manigrasso con lo spazio è lirico ma non naïf, nonostante la levità ironica di alcuni lavori, come gli autoritratti “imbottigliati”. Gli studi di architettura gli donano il rigore di plasmare la verità intellettuale dei luoghi anche in
Environment nature, che realizza in Costiera modi da Land Art. Sasso tra i sassi o linea tra le linee diventa il corpo dell’artista nella percezione fotografica di Donato delle performance del ‘68-’69.
L’eleganza orientale asciuga gli spazi e il segno nei
Senza titolo su carta, e l’ambito vissuto è ora quello 2d del foglio. Che però evoca spazi naturali in un’astrazione più lirica che radicale, germi organici o ambienti animati in alcuni disegni più “nucleari” o “rothkiani”, o lo spazio astratto della razionalizzazione, in altri più analitici. Le poesie visivo-sonore del ’69 aprono su un altro spazio, quello riempito dal suono, e dal “campanello” che in una di esse Manigrasso immagina di suonare in silenzi desertici.
E sembra di sentirlo davvero quel campanello, con altre suggestioni astrali, nelle musiche di
Arturo Morfino (Napoli, 1940-2003), pioniere delle ricerche sonore e teatrali del periodo, il cui prezioso archivio, per la prima volta presentato al pubblico, introduce il riferimento alle collaborazioni di Manigrasso col teatro sperimentale.
Lo spazio indagato è ora quello sociale, quello delle ricchissime relazioni intrattenute con i protagonisti dell’avanguardia partenopea di quegli anni, e quello del palcoscenico, sospeso tra vero e possibile. Come lo spazio del futuro in potenza, le cui assi Manigrasso ha calcato con fecondità creativa lieve ed elegante.