Delle suggestioni che le opere di
Melissa Kretschmer (Santa Monica, 1962; vive a New York) sono in grado di suscitare se n’era avuto un assaggio a
Dedica, la collettiva ospitata nel 2006 al Pan per la celebrazione dei vent’anni di attività della Galleria Alfonso Artiaco. Nell’installazione site specific pensata per l’occasione, la luce diffusa da piccoli vani rettangolari veniva filtrata da colature di cera accuratamente “piombate” a essi, a squarciare il buio tutt’intorno con bagliori capaci di evocare atmosfere gotiche affascinanti e al tempo stesso inquietanti.
“
Ho capito che l’arte stessa è una forma di luce”, spiega l’artista americana, che lavora quest’insolito e impalpabile materiale, esplorandone le diverse qualità espressive, lasciando che scivoli su untuose superfici di cera, che si rifletta nelle trasparenze del vetro oppure che s’impigli negli spessori della carta, uscendone indebolita.
A due anni di distanza, la giovane
verrier dei giorni nostri torna in città, negli spazi più intimi di piazza dei Martiri, con un progetto arricchito da nuove riflessioni: accanto all’onnipresente dialettica tra materia e luce, le
Plane Series s’interrogano sul concetto di prospettiva mediante l’introduzione di un nuovo materiale, la grafite, che – oltre a spezzare la liquidità della superficie dominata dal giallo – conferisce una concretezza inedita alle opere.
La grafite costituisce sempre il fulcro dell’intera composizione, quando graffia con sottili linee corvine la superficie tutt’intorno, facendola progressivamente convergere verso di sé, sistematasi al centro; è un punto focale di brunelleschiana memoria, moltiplicato, quando stirandosi su tutta la superficie, attraversandola da parte a parte, genera “buchi neri” nei quali sembrano sprofondare i diversi tonalismi degli strati di cera. Il piattume è scongiurato. Al suo posto, un’artificiosa alternanza di pieni e vuoti, un’illusoria sovrapposizione di piani rettangoli e quadrati, il cui scarso rigore geometrico allontana il risultato da un’eccessiva frigidità, rivelando piuttosto l’“umanità” del lavoro.
Concorre a complicare il risultato ultimo del progetto il supporto che Kretschmer sceglie per le sue opere, costituito da sottili tavole di compensato che l’artista sovrappone, sfruttandone i diversi spessori, le differenti dimensioni e che, incurvandosi, interviene a moltiplicare gli effetti di rifrazione della luce sulla superficie resinosa.
Ma c’è dell’altro, poco gotico, poco rinascimentale, terribilmente nuovo. Se quasi distrattamente o con molesta curiosità ci si affaccia su un lato dell’opera, si scopre che lo strato di cera continua, avviluppandone anche il retro. “
Questa serie di lavori”, dichiara l’artista, “
esistono in qualche posto tra la pittura e la scultura, dove gli aspetti di ognuno sono rivelati dall’essere inestricabilmente collegati”.
Non più paragonabili a tele, le opere, dunque, si trasformano in
ensemble in cui non esiste un davanti e un dietro: il processo creativo è denudato e lo spettatore è chiamato a parteciparvi. E a comprendere, così, il graduale passaggio metamorfico che conduce dall’origine al seguito.