20 ottobre 2006

EX-OTICA. È L’ARTE DI CINDIA

 
di alfredo sigolo

I calcolatori di Nuova Delhi e i cantieri di Pechino. L’industria cinematografica di Mumbai e gli opifici h24 di Shanghai. L’elefante ed il dragone s’avanzano. E non solo nella tecnologia o nell’industria. Le modalità di India e Cina sono diversissime. Lo scopo però è uno: conquistare la modernità. Anche, a quanto pare, attraverso una riconfigurazione del mercato dell’arte…

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I più pensano che sia già avvenuto, gli altri che è solo questione di tempo. In realtà, pare scritto nelle stelle. L’Asia è destinata a soppiantare gli Usa come fulcro dell’economia mondiale.
Nel campo dell’industria la Cina, in quello delle tecnologie l’India: ne L’impero di Cindia, così il titolo del fortunato volume del giornalista Federico Rampini per Mondadori, si fronteggiano il dragone e l’elefante, due modi radicalmente opposti di intendere lo Stato, ma con almeno un’importante aspetto condiviso, la difesa delle proprie radici storiche.
L’India è una superpotenza tecnologica che forma ingegneri ed informatici, facendo tremare le vene ai polsi di Bill Gates.
La Cina crea imprese a ritmo vertiginoso e ospita praticamente tutte le multinazionali esistenti. Con riserve valutarie tre gli 850 e i 1000 miliardi di dollari è definito il banchiere degli States, in buona compagnia con molti paesi asiatici, africani e sudamericani.
L’india è il più importante laboratorio di democrazia al mondo, che riesce a far coesistere etnie e religioni diverse mentre la Cina è riuscita a riprogrammare con efficacia il modello più rigoroso di statalismo autoritario e dirigista di stampo maoista. Quale modello prevarrà è difficile dire, per ora è interessante notare alcune conseguenze del processo in atto rispetto all’ormai inarrestabile espansione del mercato dell’arte contemporanea.
Attualmente né la Cina né l’India possono vantare una filiera dell’arte in grado di competere con quella anglosassone. E poi ci sono i consumi: in fortissima crescita, ma una cosa è sostituire i risciò con le automobili o le ghiacciaie con i frigoriferi, un’altra è diventare collezionisti d’arte contemporanea.
Wang Qingsong, Bath House, 2000, c-print, cm. 120 x 150 (ed. 10) (Courtesy Marella Arte Contemporanea)
In particolare la Cina oppone ancora non poche resistenze al libero mercato nel campo delle opere d’arte. Nonostante ciò nascono istituzioni pubbliche, biennali e fiere, gallerie e case d’asta aprono filiari sempre più volentieri. Proprio le principali case d’asta, tra nuove sedi e uffici di rappresentanza, sono presenti capillarmente, ad esempio in tutta l’Asia e il Medio Oriente: Bangkok, Dubai, Jakarta, Kuala Lumpur, Mumbai, Pechino, Shanghai, Singapore, Tel Aviv…
In mancanza di una filiera dell’arte completa, le sovrastrutture del mercato -la spina dorsale costituita da gallerie, mercanti e case d’asta, sono le stesse del mercato occidentale che, di fatto, si prestano al gioco- traggono profitti da questo vuoto strutturale; assecondando e crescendo il collezionismo emergente di nuove classi dirigenti, alimentano il proprio mercato e ne aprono di nuovi.
Il boom dell’arte cinese (con raffiche di record all’asta dallo scorso marzo in qua) rappresentano l’effetto eclatante dell’allargamento del mercato indotto dalle nuove economie emergenti ma anche la spinta che alimenta l’euforia del tradizionale mercato anglosassone. E se le nuove leve cinesi hanno fatto il loro trionfale ingresso nel mercato, analogo discorso vale per la fama acquistata dai colleghi indiani come Anita Dube, Chitra Ganesh, Nalini Malani, Asma Melon, Dayanita e Raghubir Singh, Subodh Gupta, Mona Rai, Rashid Rana, Raqib Shaw.
Con la lungimiranza che la distingue, Angela Vettese, in un articolo ormai di qualche tempo fa sul domenicale de Il Sole 24 Ore, riteneva la nuova corrente indiana destinata a sfondare anche più facilmente di quella cinese perché avvantaggiata da una maggior compatibilità culturale con il mondo occidentale. E, in effetti, dal Passaggio in India di Forster in epoca colonialista (1924) a quello dei Beatles alla corte del guru Maharishi alla fine degli anni ‘60, pur nelle forme deviate e omologate dell’esotismo naïf, il legame tra due culture, non solo geograficamente distanti, si mantiene vivo tra le comunità giovanili e nella memoria di quelli che, oggi adulti, furono testimoni e protagonisti dei conflitti sociali che animarono gli anni ’60. Insomma noi occidentali siamo molto diversi dagli indiani senza dubbio, ma dai cinesi siamo diversi molto di più.
Subodh Gupta, Installazione alla Jack Shainman Gallery di New York, 2005
Tra i luoghi chiave nei quali si promuove la nuova creatività indiana, vi sono senza dubbio la galleria Bose Pacia, avamposto nella grande mela promosso da Aran e Shumita Bose e la galleria Nature Morte di Nuova Delhi, diretta da Peter Nagy. Curatore indipendente, Nagy è salito alla ribalta già negli anni ’80 sulla scena newyorkese. Nell’ultima Biennale d’arte di Venezia è sua la responsabilità del progetto Icon: India Contemporary ai SS. Cosma e Damiano ed il 6 giugno a Milano è toccato a lui presentare allo Spazio Sempione tre fra le nuove proposte provenienti da quell’area.
Ma nel frattempo si tesse la rete, tra collaborazioni internazionali e nuove istituzioni: il CIMA è il Centre of International Modern Art fondato a Calcutta nel 1993, Saffronart una casa d’aste bilocata a Mumbai e New York che è diventata una specie di istituzione-ponte per gli artisti in transito dal mercato locale a quello globale, l’Asia Society un’organizzazione no profit presente capillarmente in tutti gli States, che nel 2006 ha compiuto cinquant’anni di attività nel campo della promozione e della ricerca dei paesi asiatici.
Ma forse il soggetto più interessante è Osian’s , fondata nel 2000. Non solo aste potrebbe essere il suo motto, perché le tradizionali auctions sono in realtà la fonte di sostentamento di una complessa organizzazione di archiviazione, ricerca e documentazione intorno all’arte indiana. La vera innovazione, lanciata nel marzo scorso è l’ET Art Index, un’indice per tener monitorate le performance di 51 artisti e sulle quali costruire rapporti e analisi di mercato. Osian’s si propone anche come organizzazione di riferimento per l’autenticazione, la certificazione e la valutazione. Servizi di una normale casa d’aste si dirà; certo, con la differenza che qui è tutto al servizio dell’arte indiana, una sorta di sovrastruttura che muove in un’unica direzione.
Tornando all’Italia, il 29 giugno scorso alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo si è Dayanita Singh, Eva Ray inaugurato il progetto di Ilaria Bonacossa e Francesco Manacorda dal titolo Subcontingente, un’indagine a largo raggio sulla creatività dell’area, con il preciso obiettivo di scongiurare il rischio reale di una codificazione che non tenga conto delle diversità di quella cultura, di una molteplicità di espressione che vuole contrastare il rischio di omologazione nel quale l’occidente non è nuovo ad incappare (l’arte dell’est Europa insegna).
Posto che il mercato dunque si presenta realmente planetario, alcune domande si pongono: la prima attiene al centro. Esiste ancora un centro del mercato? E se sì, questo si colloca ancora sull’asse New York-Londra? Seconda: un mercato globale porta con sé un’arte globale?
Alla prima s’è già risposto sopra: il mercato diffuso è diventato non solo un’opportunità ma una necessità nella congiuntura economica attuale. Basterebbe leggere la dettagliata analisi di Jacaranda Caracciolo Falk, su L’Espresso del 29 giugno scorso, per rendersi consapevoli dei forti interessi che si muovono intorno alla nuova creatività indiana. E per quella cinese, l’ultima monografia, ma la prima italiana non legata ad un evento espositivo, pubblicata da Electa, (“Arte cinese contemporanea”, già presentata su Exibart) parla da sola.
Qualcosa di inatteso è accaduto. In un contesto generale che ha di fatto sancito il fallimento del progetto del mac world, le nuove economie emergenti si stanno imponendo portando con sé una orgogliosa memoria storica e una forte identità nazionale. Rampini descrive puntualmente due modi diversi di perseguire un unico risultato: conquistare la modernità (meglio sarebbe dire ri-conquistare visto che stiamo parlando di due delle civiltà più antiche del pianeta che in passato hanno già sopravanzato l’occidente) partendo da se stessi e preservando le proprie origini.
Tradotto nei nuovi corsi di ricerca nel campo delle arti visive, ciò equivale a risultati niente affatto globalizzati. Contrariamente a quanto si possa pensare dunque, la tendenza, evidente ad esempio nella prima edizione della Triennale torinese, è verso l’emersione di artisti dalla forte componente identitaria e che non hanno preclusioni di sorta nei confronti della narrazione o della storia.
Il fatto è che la connotazione identitaria, come s’è visto, è condivisa anche dalle nascenti sovrastrutture.
Così nell’arte cinese riconosciamo gli esiti della forte tensione tra modernità e tradizione reazionaria; una narratività che rende conto della conflittualità dell’ultimo ventennio e che contrasta con lo stallo postproduzionista occidentale.
Il processo di trasformazione e ammodernamento è forte anche nella ricerca dei nuovi artisti indiani, ma assume connotati intimisti, fatalisti e meno ribelli. C’è consapevolezza del mutamento, della possibilità di convivenza di etnie e culture diverse, ma soprattutto la certezza del proprio ruolo in seno a tutto ciò.

link correlati
www.saffronart.com
www.asiasociety.org
www.cimaartindia.com
www.bosepacia.com
www.naturemorte.com
www.osians.com
 
alfredo sigolo

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 33. Te l’eri perso? Abbonati!

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