31 maggio 2010

CANONE INVERSO

 
di marco senaldi

Cos’è un canone? In parole molto povere, una lista. Un elenco, cioè, delle opere migliori. Quelle che uno proprio non può non aver letto/visto/ascoltato, a seconda che si tratti di libri, film, opere musicali...

di

Dal Canone Alessandrino al Canone Occidentale di Harold Bloom (da noi arrivato
nel 1996 con Bompiani, col sottotitolo I Libri e le Scuole delle Età, riedito da Rizzoli nel 2008),
alle classifiche dei film più belli di ogni tempo, su fino alle hit degli
evergreen, la storia è più o meno la stessa. Anzi, il gioco è anche divertente:
a chi non piacerebbe passare una serata fra amici a stilare la lista delle
liste, i dieci film più belli di ogni tempo, i dieci libri che mi hanno
cambiato la vita, le mille canzoni che hanno fatto sognare, le venti mostre
imperdibili del 2009? Solo che la cosa può farsi drammatica in un attimo. In
primo luogo perché la litigata è dietro l’angolo, e la serata iniziata così
bene può terminare con una porta sbattuta (del resto come si fa a stabilire
seriamente se vale di più Quarto potere o Vertigo, per non parlare dell’Orlando Furioso o di Guerra e pace?). E in secondo luogo perché il
numero delle liste può moltiplicarsi a dismisura. Oltre alle opere che
dovrebbero costituire il canone come tale, ci sono infatti le opere che del
canone ne parlano o che riflettono su di esso; la tetralogia Dog Star Man di Stan Brakhage merita certo di
stare nel canone dei film sperimentali, ma quest’ultimo non dovrebbe
comprendere anche il fondamentale saggio che la interpreta, cioè Expanded
Cinema
di Gene
Youngblood (peraltro, vergogna, mai tradotto in italiano)?
L’intreccio di tutte queste riflessioni, declinate sul
canone cinematografico, era al centro della XVII edizione del Convegno
Internazionale di Studi sul Cinema, organizzato dall’Università di Udine dal 16
al 18 marzo scorso, a cui mi è capitato di prendere parte.
Stan Brakhage - Dog Star Man - 1964 - still da film
I risultati del convegno (se pure un convegno possa
portare a dei risultati che non siano meramente teorici) non sono stati
confortanti. A cominciare dal fatto che il canone come tale è “tanto
inevitabile, quanto dannoso
” (per parafrasare il celebre giudizio di Nietzsche su Wagner), la
questione è che col progredire del tempo il semplice elenco delle cose da
vedere è aumentato a dismisura, e la crescita è esponenziale. Anche a voler dar
retta a uno come Alain Badiou, che liquida la cosa dicendo che in effetti il
cinema ha una storia ridicolmente breve se paragonata a quelle delle altre
arti, resta il fatto che in nessuna di esse si sono prodotte tante opere notevoli
in così poco tempo.
Si assiste così allo strano fenomeno per cui l’ansia di
conoscere le cose che contano davvero, invece di placarsi col tempo e in
ragione del fatto che ormai i classici (sia del cinema che della letteratura,
che praticamente di tutte le arti) sono disponibili ovunque in forma di
riproduzione, tende ad accrescersi nella misura in cui queste riproduzioni
divengono via via più accessibili, e minacciano di soffocarci.
La situazione è paradossale al punto che possiamo bensì
continuare ad accapigliarci per stabilire quale sia il film più bello di
sempre, anche se la discussione assume un retrogusto visibilmente
anacronistico. L’andamento stesso dell’amichevole zuffa (“Ci contrastavamo
amabilmente
”, per
dirla con Battisti-Panella) rivela l’inesistenza di criteri canonici per
includere o escludere un’opera dal canonico olimpo.
In tutto ciò il ruolo dell’arte contemporanea appare
ambiguo, ma nondimeno interessante. Intanto perché, dopo un secolo abbondante
di contemporaneità, pochi si fiderebbero (Un numero di Art & Languagecome invece fanno con assai meno
ritegno i cinéphile) a stilare una hit delle opere “canoniche” – ma anche
perché l’arte contemporanea, da che è nata, non ha potuto fare a meno di
ripensare, ogni volta daccapo, le proprie condizioni di esistenza – ovvero, per
dirla con Allan Kaprow, “è quell’atto la cui identità in quanto arte deve
sempre rimanere in dubbio
”.
In altre parole, non solo sarebbe dura stabilire se sia
più “canonico” il ready made Fountain, o la Merda d’artista, il Luxury Skull o il primo numero di Art &
Language
: il
fatto è che ognuna di queste opere costituisce anche una riflessione
compiuta
sulla
nozione di arte nel suo complesso; sul valore della “manualità” (Duchamp), sul senso del corpo
(Manzoni), sul mercato globale (Hirst), sulle condizioni logiche (Atkinson e
altri), e via riflettendo.
In questo senso preciso l’arte contemporanea è la forma
artistica più canonica possibile: perché, lungi dal cogitare su una
im-possibile “lista” di opere indispensabili, fa sì che ogni singola opera
d’arte, che si voglia fregiare di questo nome, porti dentro di sé
l’indispensabile ansia di questa canonica cogitazione.


marco senaldi

*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 65. Te l’eri perso? Abbonati!

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2 Commenti

  1. L’idea della lista, davvero affascinante, è alla base anche del progetto di Umberto Eco fatto a Parigi l’anno scorso.
    Anche Leporello, servitore di Don Giovanni nell’opera omonima di Da Ponte musicata da Mozart, parla del “piacer de porle in lista”. In quel caso però, erano donzelle!

  2. sull’interesse per la lista, la conta numerica e la ricerca della bellezza nella canonizzazione e simmetrica della realtà mi piacerebbe ricordare di dare “un’occhiata” al film “Drowning by Numbers” (Giochi nell’acqua) di Peter Greeneway, 1988….

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