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11
dicembre 2007
TUTTI A CASA BETTIE
Personaggi
Americana innamorata dell’Africa, Bettie Petith è sempre in giro. A Roma la sua casa è un punto di riferimento. Per tutte le anime in transito: artisti, creativi, viaggiatori, rifugiati politici. Ritratto di una signora molto speciale...
Bettie Petith ha sempre fretta di correre altrove. È fatta così, glielo leggi negli occhi. Gli States, dove è nata, li ha lasciati per l’Europa trent’anni fa. Prima Londra, poi l’approdo nella città eterna (dove tuttora è soltanto based). E adesso l’Africa. In questo momento magari è in Burkina Faso, Sahel occidentale (l’ex Alto Volta, uno dei cinque paesi più poveri della terra), dove opera la sua Fitil, l’Onlus che ha fondato un paio d’anni fa. Frutto di una lunga esperienza personale di politica sociale sul campo, Fitil si occupa di diritti civili e di problemi concreti (socioeconomici, sanitari): costruisce mulini per la macina dei cereali, istituisce mense scolastiche, iscrive all’anagrafe un gran numero di donne –altrimenti escluse dal voto–, importa vaccini (da quelle parti le epidemie di meningite sono sempre in agguato), acquista e distribuisce zanzariere per la prevenzione della malaria. In più, Fitil è il coronamento di un amore profondo per l’Africa degli africani. Un’Africa che Bettie descrive con viva meraviglia, fatta di “pazienza e umorismo, eleganza naturale e dignità, ospitalità e cultura della condivisione del tempo”. Un’Africa conosciuta e amata fuor di retorica, senza chiudere gli occhi su realtà come i matrimoni forzati e la pratica diffusa dell’infibulazione, le regole ferree di esclusione dalla società e il peso sociale delle superstizioni.
Bettie Petith è così, anche quando è a Roma. Il suo appartamento nel cuore del centro storico (in via dei Cartari, anticamente luogo di stagni sulfurei presso il quale gli antichi, ritenendolo uno degli accessi agli inferi, elevavano altari a Proserpina), prima condiviso con l’ex marito e i tre figli (Pinky, Ella e Tommy), è un po’ “la casa della pace”, “la casa della libertà”, “la casa dei dissidenti”. Ovvero, per tutti, “casa Bettie”. Calda e accogliente, popolata di/da creativi, viaggiatori e rifugiati politici (senza contare gli amici e gli amici degli amici), zeppa di oggetti arrivati da ogni dove, con tre stanzoni soppalcati che offrono un decorosissimo giaciglio anche a una dozzina di persone alla volta (senza contare Bettie, che all’occorrenza sfodera il sacco a pelo e si corica direttamente sul pavimento). Una sorta di ostello-agorà per anime in transito, più che una comune in stile seventies.
“La verità è che, semplicemente, amo avere persone a casa”, confessa a Exibart. “È così da sempre: prima della ‘casa Bettie’ di Roma c’era la ‘casa Bettie’ di Londra e, prima ancora, la ‘barca Bettie e Houwie’ di New York: una barca a vela che condividevo con mio marito, quattro cani, due gatti e tanti, tanti amici”. Un luogo di autentica condivisione (quasi tutto avviene in cucina, sede di grandi tavolate), in cui si arriva all’improvviso ma in cui si resta senza scadenza. Per settimane, qualche volta mesi o addirittura anni. E pazienza se gli incontri non sempre si rivelano piacevoli. “Ricordo di un ospite, alcuni anni fa, un amico del mio ex marito Houwie: un uomo orrendo, arrogante e prepotente. Arrivato a casa per restarvi un paio di settimane, rimase per sei lunghissimi mesi. Poi, un bel giorno decise finalmente di andarsene. Comprammo bottiglie per festeggiare. Uscito definitivamente di casa, rientrò dopo dieci minuti perché aveva banalmente dimenticato qualcosa. Ci trovò tutti a brindare e ballare sul tavolo”.
Di artisti ne sono passati –e ne passano tuttora– tanti, in casa Bettie. E il bello è che appartengono agli ambienti più diversi. “Mi vengono in mente”, dice “Roberta Garrison, danzatrice, con i suoi figli Matthew (musicista jazz come il padre Jimmy Garrison), Joy (cantante jazz) e Maia (anche lei danzatrice). Poi Matias Haber, tenore all’Opera di Vienna; pittrici come Ruza Gagulić, Sunci Persin-Tomljanovic e Isabella Catoni, che ha disegnato il logo di Fitil e lasciato un incisione su legno sul pavimento della cucina; Juan Diego Puerta López, regista coreografo e danzatore; John Kelly, performer; Mattia Casalegno, artista elettronico; Bruno Capezzuoli, video designer dei PixelOrchestra. Poi, Mary Serpico Lai e Carlos Granero. Infine, Giuliano Lombardo e Sandro Mele, artisti visivi che utilizzano più medium”.
Sandro Mele –che a quanto pare prepara un’ottima zuppa di pesce– ha anche realizzato un progetto con “casa Bettie” come concept (For Bettie), presentato nell’estate del 2005 alla galleria Totem-Il Canale di Venezia. Quanto a lei, Bettie, il suo pensiero sull’arte contemporanea non lascia spazio a fraintendimenti: “L’arte contemporanea mi interessa e mi piace. Troppo spesso, però, la trovo elitista, il che dal mio punto di vista non è certo il massimo. Penso che alcuni artisti facciano cose che, alla fin fine, riescono a comprendere soltanto loro. E, forse, in fondo, nemmeno loro. L’arte va o non va comunicata? Là dove il messaggio non arriva a molti, a parer mio si tratta sempre di una sconfitta”.
Bettie Petith è così, anche quando è a Roma. Il suo appartamento nel cuore del centro storico (in via dei Cartari, anticamente luogo di stagni sulfurei presso il quale gli antichi, ritenendolo uno degli accessi agli inferi, elevavano altari a Proserpina), prima condiviso con l’ex marito e i tre figli (Pinky, Ella e Tommy), è un po’ “la casa della pace”, “la casa della libertà”, “la casa dei dissidenti”. Ovvero, per tutti, “casa Bettie”. Calda e accogliente, popolata di/da creativi, viaggiatori e rifugiati politici (senza contare gli amici e gli amici degli amici), zeppa di oggetti arrivati da ogni dove, con tre stanzoni soppalcati che offrono un decorosissimo giaciglio anche a una dozzina di persone alla volta (senza contare Bettie, che all’occorrenza sfodera il sacco a pelo e si corica direttamente sul pavimento). Una sorta di ostello-agorà per anime in transito, più che una comune in stile seventies.
“La verità è che, semplicemente, amo avere persone a casa”, confessa a Exibart. “È così da sempre: prima della ‘casa Bettie’ di Roma c’era la ‘casa Bettie’ di Londra e, prima ancora, la ‘barca Bettie e Houwie’ di New York: una barca a vela che condividevo con mio marito, quattro cani, due gatti e tanti, tanti amici”. Un luogo di autentica condivisione (quasi tutto avviene in cucina, sede di grandi tavolate), in cui si arriva all’improvviso ma in cui si resta senza scadenza. Per settimane, qualche volta mesi o addirittura anni. E pazienza se gli incontri non sempre si rivelano piacevoli. “Ricordo di un ospite, alcuni anni fa, un amico del mio ex marito Houwie: un uomo orrendo, arrogante e prepotente. Arrivato a casa per restarvi un paio di settimane, rimase per sei lunghissimi mesi. Poi, un bel giorno decise finalmente di andarsene. Comprammo bottiglie per festeggiare. Uscito definitivamente di casa, rientrò dopo dieci minuti perché aveva banalmente dimenticato qualcosa. Ci trovò tutti a brindare e ballare sul tavolo”.
Di artisti ne sono passati –e ne passano tuttora– tanti, in casa Bettie. E il bello è che appartengono agli ambienti più diversi. “Mi vengono in mente”, dice “Roberta Garrison, danzatrice, con i suoi figli Matthew (musicista jazz come il padre Jimmy Garrison), Joy (cantante jazz) e Maia (anche lei danzatrice). Poi Matias Haber, tenore all’Opera di Vienna; pittrici come Ruza Gagulić, Sunci Persin-Tomljanovic e Isabella Catoni, che ha disegnato il logo di Fitil e lasciato un incisione su legno sul pavimento della cucina; Juan Diego Puerta López, regista coreografo e danzatore; John Kelly, performer; Mattia Casalegno, artista elettronico; Bruno Capezzuoli, video designer dei PixelOrchestra. Poi, Mary Serpico Lai e Carlos Granero. Infine, Giuliano Lombardo e Sandro Mele, artisti visivi che utilizzano più medium”.
Sandro Mele –che a quanto pare prepara un’ottima zuppa di pesce– ha anche realizzato un progetto con “casa Bettie” come concept (For Bettie), presentato nell’estate del 2005 alla galleria Totem-Il Canale di Venezia. Quanto a lei, Bettie, il suo pensiero sull’arte contemporanea non lascia spazio a fraintendimenti: “L’arte contemporanea mi interessa e mi piace. Troppo spesso, però, la trovo elitista, il che dal mio punto di vista non è certo il massimo. Penso che alcuni artisti facciano cose che, alla fin fine, riescono a comprendere soltanto loro. E, forse, in fondo, nemmeno loro. L’arte va o non va comunicata? Là dove il messaggio non arriva a molti, a parer mio si tratta sempre di una sconfitta”.
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Fitil Onlus
giulia mainenti
*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 37. Te l’eri perso? Abbonati!
[exibart]