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La prospettiva a volo d’uccello rientra nei “casi non ortogonali al piano di terra”; quelli in cui il punto di vista è elevato, il piano dell’immagine è inclinato, e la figura che ne deriva è caratterizzata da un’elevata verticalità. È una tecnica di rappresentazione utilizzata per lo più nel disegno architettonico e urbanistico, dato appunto lo sviluppo allungato della figura.
E urbanistiche ma non allineate sono, in un certo senso, le raffigurazioni di Corrado Zeni (Genova, 1967): città svuotate della loro forma, in cui rimangono solo le presenze umane in una nivea sospensione. Persone che continuano la loro esistenza, cristallizzate sulla tela, decontestualizzate dal proprio mondo.
Non c’è più ombra a scaturire dai corpi, non c’è più luce a connotare spazio e tempo; solo un tratto veloce e indefinito a imporre movimento, a trasformare l’uomo in un vortice inintelligibile, in cui i particolari della morfologia si perdono, sfuggono all’occhio e al senso della vita, in un moto perpetuo di mera sopravvivenza, priva d’ogni aspetto collettivo.
Un futuro che perde di focalizzazione, che si gioca sul continuo movimento, sulla mancanza di tempo per riflettere, sulla non autodeterminazione dell’individuo, che si trova in balia degli eventi e del flusso. I pochi che sopravvivono al disordine hanno sguardi spiazzati, rivolti verso l’altro, quasi ad aspettare un segnale, una possibilità di fuga; passivamente in attesa di un altrove, di un qualcuno o di un qualcosa, o forse solo distratti.
Scene di gruppo sulla tela, che si accostano a un’inedita serie di inchiostri su carta, scatti istantanei degli stessi uomini persi nel turbine, monocromatici e piatti, svuotati d’ogni personalità; polaroid degli stereotipi dell’homo urbis, esemplari d’una specie che vede senza guardare, che subisce invece di agire, sempre più soli, relegati ognuno sul proprio foglio, immobili.
Le dinamiche di relazione sociale si annullano e l’uomo diventa un’isola, completo in se stesso; per dirla con le parole del poeta John Donne, non c’è più contatto, solo coesistenza, divisione di un habitat comune e totalizzante, che poco lascia alla libertà dell’essere. Nessuna percezione dell’horror vacui, che invece colpisce lo spettatore, il quale si trova a fare i conti con una violenta rappresentazione della solitudine delle metropoli contemporanee, dell’incomunicabilità, della frenesia dell’uomo. Che si ritrova – come scriveva Paul Verlaine – “al vento cattivo / che mi porta / di qua e di là / come una / foglia morta”.
E urbanistiche ma non allineate sono, in un certo senso, le raffigurazioni di Corrado Zeni (Genova, 1967): città svuotate della loro forma, in cui rimangono solo le presenze umane in una nivea sospensione. Persone che continuano la loro esistenza, cristallizzate sulla tela, decontestualizzate dal proprio mondo.
Non c’è più ombra a scaturire dai corpi, non c’è più luce a connotare spazio e tempo; solo un tratto veloce e indefinito a imporre movimento, a trasformare l’uomo in un vortice inintelligibile, in cui i particolari della morfologia si perdono, sfuggono all’occhio e al senso della vita, in un moto perpetuo di mera sopravvivenza, priva d’ogni aspetto collettivo.
Un futuro che perde di focalizzazione, che si gioca sul continuo movimento, sulla mancanza di tempo per riflettere, sulla non autodeterminazione dell’individuo, che si trova in balia degli eventi e del flusso. I pochi che sopravvivono al disordine hanno sguardi spiazzati, rivolti verso l’altro, quasi ad aspettare un segnale, una possibilità di fuga; passivamente in attesa di un altrove, di un qualcuno o di un qualcosa, o forse solo distratti.
Scene di gruppo sulla tela, che si accostano a un’inedita serie di inchiostri su carta, scatti istantanei degli stessi uomini persi nel turbine, monocromatici e piatti, svuotati d’ogni personalità; polaroid degli stereotipi dell’homo urbis, esemplari d’una specie che vede senza guardare, che subisce invece di agire, sempre più soli, relegati ognuno sul proprio foglio, immobili.
Le dinamiche di relazione sociale si annullano e l’uomo diventa un’isola, completo in se stesso; per dirla con le parole del poeta John Donne, non c’è più contatto, solo coesistenza, divisione di un habitat comune e totalizzante, che poco lascia alla libertà dell’essere. Nessuna percezione dell’horror vacui, che invece colpisce lo spettatore, il quale si trova a fare i conti con una violenta rappresentazione della solitudine delle metropoli contemporanee, dell’incomunicabilità, della frenesia dell’uomo. Che si ritrova – come scriveva Paul Verlaine – “al vento cattivo / che mi porta / di qua e di là / come una / foglia morta”.
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Glenda Cinquegrana Art Consulting – The Studio
Via Franceco Sforza, 49 (zona Porta Romana) – 20122 Milano
Orario: da martedì a sabato ore 14.30-19.30 oppure su appuntamento
Ingresso libero
Info: tel. +39 0289695586; info@glendacinquegrana.com; www.glendacinquegrana.com
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