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04
gennaio 2010
libri_saggi The Museological Unconscious (mit press 2009)
Libri ed editoria
Una introduzione in forma di intervista all’autore e un titolo che si spiega ben dopo la metà del libro. Curioso l’approccio del critico russo. Che ripercorre la storia recente dell’arte sovietica e post-sovietica. Da insider...
Personaggio poco noto in Italia, Victor Tupitsyn. Anche e
soprattutto perché, a parte questo recente libro uscito per le edizioni del
Mit, la sua produzione è in russo, lingua ostica per la maggior parte degli “addetti
ai lavori”. Della moglie Margarita – con la quale la sinergia è talora
eccessivamente rimarcata – era però uscito nel 1990 Arte sovietica
contemporanea. Dal realismo sovietico ad oggi per i tipi di Giancarlo Politi (e l’unico numero
dell’edizione russa di “Flash Art”, pubblicato nel 1989, aveva come editor proprio i coniugi Tupitsyn).
Libro dall’impostazione curiosa, almeno per chi è avvezzo
alla “schematicità” dei testi anglosassoni. A partire dall’Introduzione, strutturata come un dialogo fra
l’autore e Susan Buck-Morss. Inoltre, per comprendere a cosa allude il titolo, The
Museological Unconscious, occorre giungere a pagina 229, dedicato per l’appunto alle Note sull’“inconscio museologico”. E anche il sottotitolo del
libro non svela più di tanto il contenuto dello stesso: Communal (Post)Modernism
in Russia. Volendo
semplificare radicalmente, quella proposta da Tupitsyn è una storia dell’arte
russa dalla fine degli anni ’50 ai giorni nostri.
Quale l’assunto di base? “La teoria che l’inconscio
ottico del popolo sovietico fosse strutturato come un linguaggio comune”, e che tale eredità sia rimasta
vivente anche nell’era postmoderna. Da quest’ipotesi deriva il punto di vista
complementare, sviluppato nel succitato capitolo decimo, dove la “museificazione
compulsiva” è
individuata come espressione dell’inconscio museologico. Ma, almeno per quanto
concerne il primo punto, non è forse inevitabilmente vero per ogni contesto
dia- e sin-cronico? In altre parole, è sufficiente delocalizzare nello spazio
e/o nel tempo qualsiasi opera d’arte (in realtà, qualunque oggetto, azione
ecc.) e la ricezione muterà.
Ciò non significa, tuttavia, che le “condizioni ottiche
richieste per un’adeguata comunicazione” vengano irrimediabilmente perdute. Il problema risiede
in quell’aggettivo: ‘adeguato’. Non è forse vero che tale tomistica adæquatio è un miraggio che rivela il
proprio carattere illusorio ben “prima”, nella relazione intersoggettiva e finanche
in quella intrasoggettiva (per semplificare ancora: si sono mai viste reazioni
univoche alla visione di un dipinto in una mostra? Si è mai vista una completa
aderenza a se stessi e alle proprie produzioni nel corso del tempo?).
Venendo al ruolo del nostro autore, che dire del suo ruolo
di “divulgatore” di tale presunta omogeneità russa in terra straniera? Cosa ci
(e lo) assicura di conoscere le “allegorie di lettura” che ritiene siano in vigore in “Occidente”?
Con quale autorità sull’inconscio comune russo, che egli stesso teorizza, si fa
paladino del suo “adattamento” al di là dell’oceano?
Tutte queste giustificazioni teoriche sono problematiche. E,
adottando l’ottica dell’autore, potremmo definire sintomatiche. Perché Tupitsyn non ha di fatto
i titoli per ergersi a storico (dell’arte) in senso “classico”, essendo egli
stesso poeta e sodale della scena “concettuale” russa. E, d’altro canto, ha lasciato
l’allora Unione Sovietica nel 1975. Abbiamo dunque, da una parte, un
coinvolgimento diretto negli eventi, e dall’altra una distanza geografica non
indifferente per una buona decina d’anni. Infine, se la comunanza visiva ed
ermeneutica è tanto profonda, perché altri intellettuali come Boris Groys e Victor
Misiano sono citati così raramente? Non si potrà certo addurre la scusante che
sono poco noti dalle nostre parti…
soprattutto perché, a parte questo recente libro uscito per le edizioni del
Mit, la sua produzione è in russo, lingua ostica per la maggior parte degli “addetti
ai lavori”. Della moglie Margarita – con la quale la sinergia è talora
eccessivamente rimarcata – era però uscito nel 1990 Arte sovietica
contemporanea. Dal realismo sovietico ad oggi per i tipi di Giancarlo Politi (e l’unico numero
dell’edizione russa di “Flash Art”, pubblicato nel 1989, aveva come editor proprio i coniugi Tupitsyn).
Libro dall’impostazione curiosa, almeno per chi è avvezzo
alla “schematicità” dei testi anglosassoni. A partire dall’Introduzione, strutturata come un dialogo fra
l’autore e Susan Buck-Morss. Inoltre, per comprendere a cosa allude il titolo, The
Museological Unconscious, occorre giungere a pagina 229, dedicato per l’appunto alle Note sull’“inconscio museologico”. E anche il sottotitolo del
libro non svela più di tanto il contenuto dello stesso: Communal (Post)Modernism
in Russia. Volendo
semplificare radicalmente, quella proposta da Tupitsyn è una storia dell’arte
russa dalla fine degli anni ’50 ai giorni nostri.
Quale l’assunto di base? “La teoria che l’inconscio
ottico del popolo sovietico fosse strutturato come un linguaggio comune”, e che tale eredità sia rimasta
vivente anche nell’era postmoderna. Da quest’ipotesi deriva il punto di vista
complementare, sviluppato nel succitato capitolo decimo, dove la “museificazione
compulsiva” è
individuata come espressione dell’inconscio museologico. Ma, almeno per quanto
concerne il primo punto, non è forse inevitabilmente vero per ogni contesto
dia- e sin-cronico? In altre parole, è sufficiente delocalizzare nello spazio
e/o nel tempo qualsiasi opera d’arte (in realtà, qualunque oggetto, azione
ecc.) e la ricezione muterà.
Ciò non significa, tuttavia, che le “condizioni ottiche
richieste per un’adeguata comunicazione” vengano irrimediabilmente perdute. Il problema risiede
in quell’aggettivo: ‘adeguato’. Non è forse vero che tale tomistica adæquatio è un miraggio che rivela il
proprio carattere illusorio ben “prima”, nella relazione intersoggettiva e finanche
in quella intrasoggettiva (per semplificare ancora: si sono mai viste reazioni
univoche alla visione di un dipinto in una mostra? Si è mai vista una completa
aderenza a se stessi e alle proprie produzioni nel corso del tempo?).
Venendo al ruolo del nostro autore, che dire del suo ruolo
di “divulgatore” di tale presunta omogeneità russa in terra straniera? Cosa ci
(e lo) assicura di conoscere le “allegorie di lettura” che ritiene siano in vigore in “Occidente”?
Con quale autorità sull’inconscio comune russo, che egli stesso teorizza, si fa
paladino del suo “adattamento” al di là dell’oceano?
Tutte queste giustificazioni teoriche sono problematiche. E,
adottando l’ottica dell’autore, potremmo definire sintomatiche. Perché Tupitsyn non ha di fatto
i titoli per ergersi a storico (dell’arte) in senso “classico”, essendo egli
stesso poeta e sodale della scena “concettuale” russa. E, d’altro canto, ha lasciato
l’allora Unione Sovietica nel 1975. Abbiamo dunque, da una parte, un
coinvolgimento diretto negli eventi, e dall’altra una distanza geografica non
indifferente per una buona decina d’anni. Infine, se la comunanza visiva ed
ermeneutica è tanto profonda, perché altri intellettuali come Boris Groys e Victor
Misiano sono citati così raramente? Non si potrà certo addurre la scusante che
sono poco noti dalle nostre parti…
marco enrico
giacomelli
*articolo
pubblicato su Exibart.onpaper n. 61. Te l’eri perso? Abbonati!
Victor
Tupitsyn – The Museological Unconscious
Mit Press, Cambridge (Mass.)-London 2009
Pagg. 342, ill. b/n, $ 34,95
ISBN 9788860100481
Info: mitpress.mit.edu
[exibart]