In Trentino, in Val di Non, inaugura oggi, 5 giugno, la mostra “A Line Made by Walking. Pratiche immersive e residui esperienziali in Fulton, Girardi, Griffin, Long” a cura di Jessica Bianchera, Pietro Caccia Dominioni e Gabriele Lorenzoni.
Il percorso espositivo si snoda in quattro strutture castellari della Val di Non – Castel Belasi, Castel Coredo, Castel Nanno e Castel Valer – «ponendosi come una mostra diffusa, apice di un progetto biennale realizzato con la collaborazione di Panza Collection, APT Val di Non e Urbs Picta».
«Le ricerche dei quattro artisti – hanno ricordato i curatori – si fondano sul concetto di esperienza dello spazio attraversato, e sulla volontà di recuperare una relazione più autentica non solo con la natura e il paesaggio, ma anche con il fare arte, andando a misurarsi con una dimensione ancestrale alla base della quale stanno il rapporto tra uomo e natura e un’idea di lavoro artistico come processo, di cui l’oggetto-opera non è che un residuo, una traccia dell’esperienza vissuta».
Il fulcro della mostra si trova a Castel Belasi, con una selezione di lavori per lo più inediti di Long, Fulton e Griffin appartenenti alla Panza Collection. Delle 21 opere in mostra qui, infatti, – hanno ricordato gli organizzatori – solo 6 sono già state esposte, mentre 15 sono completamente inedite. Di queste 21, inoltre, 6 sono state parte della Collezione Guggenheim New York dal 1996 al 2003. Sempre in questa sede viene presentata, inoltre, una serie di lavori di Daniele Girardi.
A Castel Valer e Castel Nanno sono stati realizzati due focus sulla ricerca di Ron Griffin nel primo caso – con una serie di opere di cui tre in prestito da AGIVERONA Collection – e di Daniele Girardi nel secondo.
Il percorso si conclude a Castel Coredo, dove sono esposti tre libri d’artista di Hamish Fulton, Richard Long e Daniele Girardi, a cui si aggiunge un oggetto scultoreo di Ron Griffin.
«”A Line Made by Walking” nasce come progetto complesso, con numerose chiavi di lettura e modi di interagire con il territorio e il suo pubblico. Ma è anche un progetto figlio del suo tempo, che si è quindi dovuto adattare alla contingenza pandemica, sdoppiandosi in due anni, il primo caratterizzato da un approfondimento culturale sulle tematiche della mostra e dalla residenza di Daniele Girardi (che l’artista aveva raccontato qui, ndr) e un secondo anno caratterizzato dalla mostra nei castelli della Val di Non. La mostra è un output possibile, un modo di rendere visibile un pensiero che viene da lontano, mettendo al centro le opere e la poetica degli artisti selezionati ma anche il territorio che ospita e sostiene il progetto e il pubblico, che genera la mostra con la sua attenzione».
«Questa volontà di spostare il baricentro dell’attenzione non sull’opera in quanto oggetto materiale ma sull’operazione e l’operatività dell’artista, sull’esperienza, è connaturata al lavoro dei quattro autori che abbiamo scelto e affonda radici lontane nella storia dell’arte. Lungo tutto il Novecento scopriamo una volontà da parte degli artisti di ritrovare un rapporto autentico con il fare arte e -attraverso l’arte- di relazionarsi con il mondo, con una società così diversa da quella in cui hanno operato gli artisti per secoli e con un pubblico altrettanto mutato, più vasto, che non conosce confini di classe e di geografie. L’arte non è mai puro oggetto di contemplazione, nel nostro tempo in particolare essa è anche un veicolo per analizzare e leggere il mondo, per problematizzare il proprio tempo, per affermare valori, per stimolare alla riflessione. I quattro artisti in mostra, in tempi e con modalità differenti, hanno scelto di lasciare il proprio studio e gli spazi deputati all’arte per entrare nel mondo e ritrovare lì il senso stesso della nostra esistenza. Le opere sono segni minimi, testimonianze di quell’esperienza, input per l’approfondimento e la riflessione».
«Il progetto non nasce a tavolino, per un anonimo white cube, ma si realizza in stretta connessione con il territorio e con gli edifici che lo ospitano. Si tratta infatti di castelli, luoghi fortemente caratterizzati e naturalmente vocati, sia per storia che per collocazione, al dialogo con il paesaggio e con l’ambiente naturale. Non c’è alcun desiderio di ipercontestualizzare le opere, ma di osservare nel loro farsi nuovi significati e nuovi punti di vista sia sui lavori storicizzati della Panza Collection che sugli interventi site-specific di Daniele Girardi. In particolare, l’opera di quest’ultimo fa da anello di congiunzione fra dentro e fuori, fra spazio espositivo e ambiente naturale, fra castello e gesto artistico: nel corso del 2020 è infatti stato protagonista di una residenza itinerante nei boschi della Val di Non. I resti materiali di questa esperienza sono opere, schizzi, appunti ma anche un video/documentario del regista Emanuele Gerosa, che completa la mostra (qui potete trovare un breve estratto, ndr). Le opere sono allestite nel pieno rispetto e con un occhio di riguardo speciale per la tutela dei castelli come beni architettonico/monumentali fragili e tutelati».
«Il nucleo centrale della mostra si trova a Castel Belasi, che è anche il più a sud dei quattro castelli. Qui è raccolto il maggior numero di opere e, soprattutto, sono presenti i lavori di tutti e quattro gli autori: troviamo due opere monumentali di Richard Long, che dialogano in maniera soprendente con l’austera architettura medievale, una gruppo rilevante di fotografie di Hamish Fulton e un’ampia selezione di opere di Ron Griffin. Daniele Girardi è rappresentato in mostra da Abaton, un’opera site-specific di dimensioni ambientali e da una serie di lavori recenti che ben rappresentano la sua ricerca. Credo quindi che convenga partire da Belasi un’ideale esplorazione di questa mostra diffusa. In termini di distanza geografica il secondo castello è Nanno, dove si trova un’installazione di Daniele Girardi, un rifugio, come quelli che i viaggiatori più audaci costruiscono nella natura selvaggia come riparo temporaneo. Questo lavoro nasce dalla residenza del 2020 e dialoga con l’identità stessa di quel luogo: Castel Nanno si presenta oggi come un’elegante residenza cinquecentesca ma manifesta con chiarezza alterne fasi di uso e abbandono, che vanno dalla sua edificazione come villa fortificata, a riparo in campagna della famiglia Madruzzo, per poi essere usato come caserma austro ungarica, ricovero coatto delle truppe italiane durante la Grande Guerra e riparo per i tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale, fino all’uso come deposito utile al lavoro nei campi. Il percorso potrebbe proseguire a Castel Valer, dove abbiamo pensato a un focus sul lavoro di Ron Griffin, il quale vede nell’incontro con le vastità desertiche del Nord America e nella loro esplorazione in solitaria un aspetto fondamentale della propria poetica alla ricerca di residui di umanità, frammenti di storie. L’inserimento delle opere in un contesto familiare, all’interno di questo complesso castellare che è stato abitato -fino alla scomparsa del Conte l’anno scorso e per più di seicento anni- dai conti Spaur di Flavon e Valer, suggerisce una relazione profonda tra gli spazi dell’abitare e le opere d’arte qui inserite, tipica del collezionismo di Giuseppe Panza di Biumo. Chiuderei, infine, con Castel Coredo, dove i quattro artisti si riuniscono di nuovo: questo castello è dedicato all’esposizione di tre libri d’artista di Hamish Fulton, Richard Long e Daniele Girardi, a cui si aggiunge un oggetto scultoreo di Ron Griffin in un dialogo serrato tra l’oggettistica raccolta nel tempo e la passione biblioteconomica della famiglia. Le quattro sedi però sono visitabili anche singolarmente e pur costituendo quattro momenti dello stesso progetto, sono anche pensate per funzionare in maniere indipendente».
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