BAM è un festival internazionale di teatro, musica e arti visive dedicato ai popoli e alle culture dei Paesi che si affacciano sul mare, incentrato sulle tematiche dell’accoglienza e del dialogo, con proposte provenienti, per la sua seconda edizione, da Turchia, Germania, Olanda, Iraq, Gran Bretagna, Cuba, Palestina, Libano, Messico, Cile, India, Iran, Israele e Albania, che si apre oggi (fino all’8 dicembre) in varie sedi a Palermo. Intitolata “ÜberMauer” non solo perché quest’anno decorrono i trent’anni dalla caduta del muro più celebre della storia, quello di Berlino, ma anche perché di muri, a Palermo, sembrano non essercene mai stati.
Il “grande porto”, termine etimologico da cui deriva il nome di Palermo, nella storia infatti è stata “casa” di tutti: non dimentichiamoci, infatti, che esisteva già durante la dominazione araba, un sistema legislativo che permetteva la convivenza delle regole islamiche e cattoliche, e si condividevano politiche, religioni, giurisdizioni…
Una vera fucina di multiculturalismo, più che di quelle “integrazioni” che spesso fanno rima con “assoggettamento”. Non è un caso, infatti, che la seconda lingua di Palermo sia l’arabo (ed esageriamo fino a un certo punto, visto che anche una miriade di termini che hanno a che fare con l’agricoltura hanno radice mediorientale).
BAM, la Biennale Arcipelago Mediterraneo, si vuole porre nel solco di questa storia: oltre ogni idea di sovranismo e in una politica di post-nazionalità, come ha dichiarato in conferenza stampa il Sindaco, Leoluca Orlando.
«L’idea di fondo di BAM – ci spiega Lorenzo Marsili (filosofo, attivista e co-fondatore di European Alternatives) è dimostrare ci sia nuova vita nel mondo delle Biennali». Che cosa significa? Che questa Biennale, senza scimmiottare la grandi manifestazioni che già ci sono nel mondo, da Venezia a Istanbul, «combina l’internazionalità delle partecipazioni degli artisti con un lavoro preciso sulla città, valorizzando lo straordinario fermento culturale di Palermo. Su questa base si può costituire un’istituzione che, con tempo e attenzione, e ovviamente lavorando sul biennio, possa definire una “Biennale di Palermo” che funzioni in uno stretto rapporto tra enti privati e Comune».
Dell’approccio più legato alla scelta degli artisti ci parla invece la Presidente di Fondazione Merz, Beatrice Merz, che spiega: «Abbiamo invitato artisti che provengono da diversi continenti: Shilpa Gupta è indiana, Emily Jacir è palestinese, Michal Rovner è israeliana, Damien Ortega messicano, Alfredo Jaar cileno, Zena Al Khalil è libanese. Molti, insomma, arrivano da zone dove attualmente sono in corso conflitti, rivolte, proteste. E tutti operano un lavoro di attenzione verso il proprio Paese che però non è confinato: sono dissertazioni nei confronti dei problemi della globalità».
Non è un caso, in fondo, che Beatrice Merz ci racconti lo statement poetico e politico di BAM davanti a Palazzo delle Aquile, in piazza Pretoria (detta anche della Vergogna – ma per questa spiegazione vi rimandiamo ai libri di storia dell’arte), dove si incontra il nastro adesivo di Gupta che riporta (in italiano, inglese e arabo) la frase “Non c’è frontiera qui” messo proprio come una barriera alle transenne che circondano l’edificio, (per una situazione di caduta calcinacci). Un’installazione forte che, anche il Sindaco Leoluca Orlando, non ha avuto dubbi dovesse essere lì, ora.
Le opere che portano il visitatore ad esplorare nuovi punti di vista sull’intreccio tra storia e questioni urgenti del presente si susseguono. Al Teatro Garibaldi c’è Jonas Staal con l’opera New Unions che Marsili così ci introduce: «Per tanti anni l’artista ha lavorato all’interno del movimento del Kurdistan siriano, tanto che dopo cinque anni gli hanno chiesto di fare un’installazione che funzionasse come parlamento per le zone curde della Siria, quelle che oggi sono in parte occupate in parte dalle forze turche. Qui a Palermo abbiamo messo in scena la prima retrospettiva di New Unions, progetto nato cinque anni fa. Al Teatro Garibaldi Jonas cerca di immaginare quali altre unioni siano possibili al di là dell’Unione Europea. L’idea di Staal è di andare oltre, immaginare tante “unioni differenti”: tra città, autonomie, tra confederalismi democratici. Questa mostra è dedicata a questa utopia. Il grande tappetto mappa tutti i movimenti progressisti, verdi, femministi d’Europa ed entrando al Garibaldi si dovrebbe riflettere su fatto che se tutti questi partiti si unissero in un unico fronte trans-nazionale forse creerebbero un vero contropotere cittadino sia rispetto all’Europa che ci viene imposta sia rispetto a chi la vuole distruggere».
Alla Chiesa dei Santi Euno e Giuliano Driant Zeneli con la videoinstallazione When I grow up I want to be an Artist, racconta come il momento storico in cui ci si trova a vivere possa cambiare ruolo di una persona nel sistema, «La mia stanza era lo studio di mio padre, uno dei pittori ufficiali del partito comunista, e il suo mestiere era quello di ritrarre il dittatore Enver Hoxha e altri esponenti del partito; io sono cresciuto con il grande viso del leader addosso. Per questo ho chiesto a mio padre di ritrarmi nella stessa maniera del dittatore. Mentre dipinge, nel video, mio padre racconta di quando aveva voluto diventare artista, e di quando nel 1991 si è trovato all’improvviso a reinventare la propria vita in Albania, ultimo Paese nell’Est Europa in cui è crollato il regime comunista. Per sopravvivere iniziò a realizzare visti falsi per la gente che voleva scappare, falsificando le fotografie di diversi passaporti. Nel video lui pronuncia questa frase: “La mia arte da politica è diventata sociale”», ci racconta Zeneli. Un cortocircuito che si gioca in tutto il video, dove l’opera non rappresenta più il regime, ma il ritratto del figlio che lo ha portato a dipingere nuovamente.
Nella Chiesa di Santa Maria dello Spasimo la perfetta installazione dell’israeliana Michal Rovner riflette sulla relazione tra luogo e identità: «Ho chiesto a quindici persone in Russia, in Romania e in Israele il permesso di filmarle tenendosi per mano, per creare una sorta di catena, di connessione umana», ci racconta. E nel buio dello Spasimo, dopo il tramonto, l’abside e il muro interno di quella che fu la facciata diventano un camminamento che ricorda migrazioni, la conta dei giorni dei carcerati, mixando contemporaneo e antico: «Adoro il medium effimero e attuale del video utilizzato sulle pietre della storia, si confondono i livelli», spiega Rovner.
Zena El Khalil, al Convento della Magione, svela un mondo per noi inesistente perché immerso in un apparente silenzio, che nasconde potenziali percorsi terapeutici. La sua installazione, realizzata con una serie di vegetali e arbusti locali, dalle aloe alle bouganville, si intitola Astarte’s Cosmic Symphony. Alle piante in cattività El Khalil, libanese con una presenza forte nel suo paese anche a livello di impegno politico, attacca degli elettrodi che traducono gli impulsi presenti nei vegetali in suono udibile. «Di ogni essere vivente è possibile misurare le vibrazioni che emette, che sia animale o pianta. Io ho semplicemente tradotto queste vibrazioni componendo delle sinfonie e usando solo nove suoni che formano una scala musicale. L’ascolto di queste frequenze può essere terapeutico, e va oltre l’udire per trasformarsi in atto di “guarigione” del corpo», ci spiega l’artista.
Ma non è finita, perché all’appello mancano anche Alfredo Jaar con la sua splendida installazione al Teatro Bellini, Emily Jacir sui muri della Kalsa, Claire Fontaine alla GAM, Francesco Arena (sempre al Convento della Magione), Shirin Neshat di nuovo allo spasimo, e tra tanti altri anche Alterazioni Video (Andrea Masu) che giovedì nell’edicola ai Quattro Canti (vi ricordate quella riaperta dopo anni e anni in occasione della presentazione del libro dedicato all’Incompiuto Siciliano durante Manifesta?) metteranno in atto una sorta di hackeraggio della cultura: attraverso una chiavetta USB il pubblico potrà scaricarsi qualche titolo tra una serie di migliaia e migliaia di volumi raccolti nella biblioteca digitale del collettivo.
Che Palermo, insomma, anche stavolta faccia la sua parte “oltre il muro” non v’è ombra di dubbio. Vedremo (ma lo scopriremo solo vivendo) se tutta questa arte davvero contribuirà a cambiare l’aspetto di questa città dalle mille contraddizioni e che, in mille modi differenti, viene vissuta e percepita, interpretata, raccontata, usata come palcoscenico e teatro di vita nel suo sterminato fascino e nelle sue difficoltà endemiche, nei problemi irrisolti e in quelli subentrati in tempi recenti, così come nel suo essere magico approdo turistico degli ultimi anni.
Qui il programma completo di BAM: Arti visive, Teatro e Performance, Parola, Musica, Open Studio, Didattica.
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