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“Cuore a fette” di Sean Shanahan (Dublino, 1960), a cura di Luca Massimo Barbero da Building a Milano, nasce da una riflessione intima e personale sul tema della morte e dell’eternità. È Shanahan a raccontare, con profonda umanità, la scelta di questo titolo: «Ero al supermercato, comprando cibo per i cani, quando mi sono imbattuto in questa frase, “cuore a fette”. Ho pensato che fosse il titolo perfetto per una mostra. Poco dopo ho perso due amici, non sono triste, soffrivano molto. Erano due persone che amavo e non ho avuto dubbi sull’idea di fare una mostra che fosse una danza macabra. Seria, non tetra. Piena di energia».
La danza macabra è, per iconografia, una danza tra scheletri e uomini con funzione di memento mori. Quella di Shanahan esprime una visione individualistica che richiede tempo, assorbimento, sedimentazione.
La mostra si sviluppa sui tre piani della galleria Building, in un allestimento al limite con l’installazione, offrendo tre diverse letture del rapporto tra l’opera, lo spazio espositivo e lo spazio reale. Shanahan non ha dubbi: i dipinti, frutto degli ultimi anni di lavoro, sono da guardare prima di essere raccontati. Potrebbe creare un certo disagio in un tempo che affannosamente cerca di rispondersi al che cosa sia piuttosto che chiedersi perché sia. Ma finalmente un po’ di – raro – disagio, quasi in termini sorprendenti si respira. Il percorso della mostra è un graduum, come generosamente suggerisce Luca Massimo Barbero. Il riferimento è puramente musicale: la mostra è silenziosa dal basso e sale cantando, sommessamente e profondamente.
Se avessimo degli occhiali con delle lenti colorate (ad esempio blu), tutto ciò che vedremmo ci apparirebbe in sfumature di blu. Questo sarebbe il mondo del fenomeno, il mondo visto attraverso delle forme che dipendono dalla nostra limitatezza. È questo l’esempio che Kant usa per far comprendere la differenza tra il fenomeno, realtà che ci appare tramite le nostre forme a priori e il noumeno, realtà considerata indipendentemente da noi e dalle nostre forme a priori. Gli occhiali di Kant sono la cornice di Shanahan che, studioso di storia dell’arte, ben sa cosa significhino la cornice e il suo spostamento.
Al piano terra cinque grandi opere interagiscono con lo spazio espositivo grazie a un uso drammatico e concettuale della luce e del colore. Dalla compenetrazione delle opere nello spazio, con lo spazio e attraverso lo spazio, ha origine la danza macabra. Il loro fulcro è il foro centrale, nero, cupo, assente e presente. «È quasi un inganno, o meglio non è un inganno ma è qualcosa di leggermente teatrale – spiega Shanahan – il colore nero è del resto complice della teatralità. L’idea è che il nero emerga in tutta la sua forza dal foro centrale delle opere esposte. Vediamo il buco e la sua sagomatura ancora prima di vedere il resto, come se il quadro nascesse dal nero».
Salendo al primo piano, che prende il nome di “Hysterical Aftermath”, incontriamo tre grandi opere – “Flounder”, “Float”, “Flight”, tutte del 2022 – che rimarcano, con delle inaspettate tonalità cromatiche, la loro presenza materica e tangibile. Questo primo piano «è luce, è colore. La drammaticità e la teatralità – dice Shanahan – vengono meno in favore di un equilibrio sensibile. È in qualche modo una dispettosa introduzione alla realtà».
Una realtà che si concretizza al terzo piano suggerendo un richiamo diretto ai concetti di incommensurabile ed eterno, ispirato alla locuzione latina sub specie aeternitatis. Confermando la concretezza di quest’ultimo momento espositivo, dice Shanahan che «ciò che il piano terra suggerisce, qui è messo a nudo».
Tesi. Antitesi. Sintesi.
Non è un caso che Shanahan scelga di citare il gesuita Pierre Teillard de Chardin: «poiché tutto ciò che sale converge». Avrebbe potuto fermarsi e fermarci al primo piano, non l’ha fatto. Lui voleva portare lo sguardo in quella dimensione che riconosce e identifica nel «ritorno». Forse quello dell’eterno?