Da oggi, 9 luglio, nella Sala delle Capriate di Bergamo, sede estiva della GAMeC – Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo per il terzo anno consecutivo, il pubblico potrà immergersi nella personale di Daniel Buren “Illuminare lo spazio, lavori in situ e situati”, a cura di Lorenzo Giusti.
La mostra, visitabile fino al primo novembre, porta per la prima volta in un museo italiano i lavori di Daniel Buren con la fibra ottica, elemento di cui è stato primo sperimentatore in campo artistico una quarantina d’anni fa.
«Quello di Buren è un lavoro “per” e “nello” spazio, un unicum scultoreo con un forte connotato plastico, indipendente e anti-decorativo, e, allo stesso tempo, con una predisposizione all’interpretazione e alla valorizzazione degli elementi artistici e architettonici preesistenti», ha spiegato l’istituzione.
«Dall’incontro tra un gruppo di interventi “in situ”, immaginati appositamente per lo spazio della sala, e una serie di lavori “situati”, adattati cioè agli spazi del grande salone ma idealmente trasferibili in altri contesti, nasce il progetto di Buren per la città di Bergamo, che per la prima volta apre le porte al pensiero e alla creatività del celebre artista francese affidandogli la rilettura di uno dei suoi luoghi storici più rappresentativi», si legge nel comunicato stampa.
«Una quarantina di anni fa l’azienda che produce fibre ottiche materiale un giorno mi ha chiamato e mi ha detto che avevano iniziato a sviluppare un nuovo materiale, che non sapevano ancora bene come impiegare e che sarebbe stati interessanti a sapere che cosa avrebbe potuto farne un artista. Si trattava dei primi prototipi di fibra ottica e il diametro si andava via via riducendo in fretta, fino a quello molto sottile di un capello. Con le fibre ottiche più sottili era possibile lavorare quasi come se fossero fibre tessili, cotone o lino, ed era possibile creare una superficie piatta. Io ho adattato questo strumento per poterlo usare nei miei lavori e quando è stato scoperto che ponendo un led all’inizio della fibra poteva “trasportare” la luce le possibilità sono aumentate incredibilmente. Ho pensato che si sarebbero potute creare delle tende per una stanza, che durante il giorno avrebbero potuto proteggere dalla luce del sole, mentre di notte avrebbero potuto illuminare quella stessa stanza. Anche se all’inizio era completamente al di fuori del mio lavoro, da quel momento ho continuato a sviluppare il potenziale della fibra ottica nel mio lavoro, con quelle stesse persone con cui tutto è iniziato quarant’anni fa. Inoltre c’è stata un’evoluzione tecnica e stiamo studiando nuove soluzioni. Siamo stati i primi a intravedere la possibilità di realizzare opere d’arte con la fibra ottica».
Qual è la relazione tra il Suo lavoro e la luce, in particolare quella artificiale?
«Fin da quanto ho iniziato a lavorare con la luce per me è stato importante che non fosse qualcosa di banale come un’illuminazione che rende visibile un lavoro anche al buio, come ad esempio una fascio di luce proiettato su una statua che permette di vederla di notte come di giorno. Così ho realizzato una serie di lavori in cui la luce mostra qualcosa di completamente unico e diverso da come lo si può vedere con la luce del giorno.
Come esempio posso portare il lavoro di arte pubblica che mi è stato commissionato che ho realizzato per il Palais-Royal di Parigi, nel cui cortile, invece di rafforzare, illuminandola, la griglia formata dalle colonne, è stato creato un lavoro che di notte apparisse in modo completamente diverso da quello visibile di giorno: è stata posta la luce nei punti d’intersezione delle grate che coprono l’acqua che scorre al di sotto, in modo da creare un “tappeto” di luce che appare rosso o verde, a seconda del punto di osservazione.
Nei lavori con la luce non si tratta di illuminare le opere, ma sono le opere stesse a dare luce allo spazio: bisogna realizzare qualcosa di differente, non solo dare la possibilità di vedere qualcosa nell’oscurità».
Come avete proceduto per realizzare i lavori in situ e situati al Palazzo della Ragione a Bergamo?
«Prima dell’inizio della pandemia era previsto che io andassi a Bergamo, ma è diventato oggettivamente impossibile, così, con il direttore della GAMeC, Lorenzo Giusti, abbiamo deciso di posticipare la mostra. Ho proposto una soluzione per poter comunque proseguire nella realizzazione della mostra, anche se non era quella che preferivo: conoscevo lo spazio e le opere e avrei potuto, quindi, seguire i lavori attraverso video, foto, internet, direttamente dalla mia abitazione in Francia. Ho così potuto monitorare in modo molto diretto, ogni mezz’ora, l’evoluzione dell’allestimento e abbiamo costruito la mostra come se fossi stato lì. È stata una modalità di lavoro che non avevo mai provato».
La situazione attuale ha segnato un aumento molto forte della fruizione dell’arte attraverso internet. Pensa che possa essere un nuovo modo di fruire l’arte o è meglio che prevalga la fruizione nei musei?
«Dall’invenzione della fotografia molte persone, dagli appassionati agli studiosi agli storici dell’arte, hanno conosciuto l’arte e le opere molto più frequentemente attraverso le fotografie che dal vivo, questo è un dato di fatto. Penso che sia terribile: un’opera d’arte, che sia stata realizzata durante il Rinascimento o ieri, deve essere sperimentata per come è e dove è. Filmare, fotografare, etc. un’opera d’arte non è un’operazione completamente priva di senso, ma l’artista non ne ha il controllo e nell’osservarla è sempre necessario considerare che si è di fronte a una riproduzione e non al lavoro. Vedere un dipinto o qualsiasi oggetto reale solo attraverso lo schermo è ridicolo e crea un risultato estremamente debole rispetto a ciò che il lavoro in questione potrebbe essere: se si guarda qualcosa che può essere visto solo attraverso la realtà della fotografia va bene, ma se la fotografia è una riproduzione, anche ben fatta, non ha senso. Prendiamo, ad esempio, un dipinto di Picasso: è stato pensato dall’artista come dipinto, non come sua riproduzione fotografica.
È diverso, e può essere molto interessante, invece, se un artista realizza un lavoro che può essere visibile solo attraverso uno schermo o in fotografia, etc., e molti artisti lo stanno già facendo».
Cosa pensa che l’arte in questo momento debba salvare?
«La produzione dell’arte. Io sono, in generale, molto scettico e critico verso la produzione artistica. Se dovessi scegliere quali lavori tenere, ne terrei davvero pochi. Per quanto riguarda il fatto di fare o mostrare le opere, penso che la situazione di oggi sia molto simile a quella di cento anni fa: abbiamo “l’obbligo” e l’interesse di vedere ciò che viene fatto, ci sono opere che vengono realizzate per i nuovi strumenti, come internet, così come internet dà anche la possibilità a chiunque nel mondo di vedere i lavori ovunque siano, ma se si vuole guardare il vero lavoro, con questo intendo uno specifico medium, che può essere un dipinto, un oggetto o qualsiasi cosa, è necessario vedere la sua “fisicità” nel suo contesto e per questa ragione possiamo inventare nuovi tipi di musei, ma sono sempre luoghi dove bisogna andare per vedere le opere. Anche se abbiamo musei completamente differenti rispetto ai secoli scorsi e sono molto più numerosi, la loro funzione rimane la stessa, che è sempre quella di mostrare specifiche opere, che sono espressioni visuali: allo stesso modo in cui si deve andare a vedere i lavori di Botticelli si deve andare a vedere quelli di Pollock. Si ha “l’obbligo” di andare al museo per giudicare realmente l’interesse e la qualità del lavoro: non credo che un lavoro realizzato con un medium specifico possa essere rimpiazzato dalla sua riproduzione attraverso un nuovo medium, credo, invece, che con un nuovo medium si possa creare una specifica opera d’arte, su questo sono completamente d’accordo. A me piace la specificità dei lavori, in generale e a livello teorico: la specificità di ogni lavoro è interessante se rimane ben visibile, se la si trasforma in qualcosa di più semplice, come ad esempio un dipinto nella sua fotografia, non stiamo più parlando della stessa cose e certamente la foto di un dipinto non sarà mai interessante quanto il dipinto».
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