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Dggi, 19 gennaio, al 26 marzo 2022, nella sua sede milanese, Corso di Porta Nuova 38, Cardi Gallery presenta la prima mostra personale di Davide Balliano (1983, Torino) con la galleria.
«Attraverso un importante corpus di opere inedite prodotte nel 2021, – ha anticipato la galleria – la mostra offre un’occasione unica per scoprire il linguaggio visivo dell’artista e approfondirne l’indagine sulle problematiche formali, in equilibrio tra il rigore della geometria e il calore e il peso dell’esperienza umana».
«La mostra di Davide Balliano a Milano rappresenta un momento significativo tra le aperture del programma 2022, che sarà ricco di importanti presenze programmate fino a dicembre. Balliano, con questa serie di opere inedite rappresenta una novità in linea con il DNA della galleria, sia per gusto che per estetica», ci ha spiegato Giacomo Nicolodi, Chief Marketing Officer della galleria.
Le parole di Davide Balliano
Per la prima mostra alla Galleria Cardi di Milano presenti una serie di opere inedite datate 2021. Quali sono le principali caratteristiche di questo nuovo nucleo di lavori e che cosa li accomuna?
«Il mio lavoro è una continua evoluzione di sé stesso, rimangono quindi costanti i materiali, il loro colore e un approccio organico ed emotivo all’astrazione geometrica.
In particolare, nel corpo di lavori presentato in questa mostra, comincia a delinearsi una frattura nel sistema; come una musica in cui irrompe un inaspettato cambio di tempo, solo per essere poi riassorbito nell’armonia generale ampliandola e arricchendola. Questo assestamento mi ha appassionato molto nei mesi passati e continua ad essere il centro della mia attenzione per il prossimo futuro».
Come nascono, a livello tecnico, i tuoi lavori? E quale concezione del colore sta alla base della scelta di lavorare esclusivamente con il bianco e nero?
«A livello tecnico il mio lavoro è basato su un disegno a graffite su una base di stucco, a cui vengono aggiunti molteplici strati di inchiostro, collanti, gesso, stucco e lacca. Procede in maniera piramidale, salendo nella precisione della struttura geometrica e discendendo nell’erosione della superficie pittorica. Il contrasto/armonia tra questi due elementi rimane formalmente la colonna portante del mio lavoro.
La comunione tra la (inutile) ricerca di perfezione della composizione geometrica, e il caos calmo delle raschiature, abrasioni e colature che ne occupano la superfice crea uno stallo in cui la natura del lavoro prende consistenza. La considerazione e il pensiero del colore rimangono una preoccupazione quotidiana.
Non ho molto la percezione di lavorare in bianco e nero, anche perché il bianco è più un’opinione che non un dato oggettivo. Otticamente il mio è talmente caldo da essere quasi un giallo molto pallido. Anche il nero è più un’idea, uno standard, che non una realtà ottica. In ogni caso i miei colori sono determinati dai materiali. Mantenere le cromie stesse dello stucco e del gesso (nero, utilizzato prevalentemente per grandi fondi) è la maniera più diretta e sobria di rispettare la natura del mio lavoro».
Quale rapporto si può rintracciare, nei tuoi lavori, tra geometria e esperienze umana?
«La geometria per me rappresenta una traduzione, una maniera di relazionarmi al mistero che ci circonda evitando una narrazione e un commento diretto al nostro tempo. Come una musica strumentale, è un linguaggio che si muove parallelamente a quello verbale, fornendo rifugio al pensiero e invitando alla riflessione.
Nel ritmo del mio lavoro io sento il movimento del respiro, il battito cardiaco, l’espandersi della cassa toracica, il procedere della storia e l’inesorabile processione del tempo che suggerisce come tutto non è, ma piuttosto succede (o meglio sta succedendo). Ma queste sono esclusivamente le mie percezioni, non un significato contenuto nel lavoro che invece ne rimane privo, quindi accogliente, pronto a ricevere».
Da anni vivi a New York City. Quali sono gli aspetti che più apprezzi di questa metropoli? Come stai vivendo, da artista, questi anni di grande incertezza? Quale rapporto hai con l’Italia?
«Di New York amo la sua natura accogliente e cosmopolita.
Nessuno è di New York, e tutti lo sono, una volta che hanno provato sé stessi con la sopravvivenza. È una città fondata sull’immigrazione, in cui vengono parlate tutte le lingue del mondo. Può essere un luogo molto duro, ma anche incredibilmente romantico. Continua ad essere un porto, una città di confine, e l’energia che scaturisce da tutti questi corpi in movimento, da tutto questo desiderio di emancipazione si conferma come un’esperienza che voglio avere al centro del mio tempo.
Ogni artista penso sia nella posizione ideale per sopravvivere questi nostri anni di apocalisse latente. Ognuno di noi ha passato anni lavorando senza alcuna prospettiva di un ritorno economico, ma solo per bisogno, per urgenza. Si è artisti perché si deve, non perché si vuole.
Io lavoro da solo per una decina di ore al giorno, di solito sei giorni a settimana. Sono stato molto fortunato a poter affrontare la prima quarantena con mia moglie, nella comodità del nostro privilegio, ma a livello lavorativo non ha influito sulle dinamiche della mia pratica.
Il futuro rimane incerto, ma un cambiamento era inevitabile da tempo.
L’Italia è la terra da cui vengo e in cui sono cresciuto, le voglio molto bene. È un luogo unico in cui la storia continua a vivere nel contemporaneo, creando un presente antico che sento molto parte di me».