“Stop Painting” alla Fondazione Prada è un “catalogo” frammentato e luminoso intorno alla materia più anarchica, antica e contemporanea, dell'arte: la pittura
È muscolare e allo stesso tempo delicata; occupa una linea temporale di 150 anni di storia dell’arte ma non si appesantisce. Mancano parecchie cose, si potrebbe obiettare, ma è altresì vero che ci sono pezzi che sono pietre miliari della “pittura” del XX secolo, e non solo.
Siamo a Venezia, dove ieri, oggi e domani inaugura per gli addetti ai lavori – l’apertura al pubblico è per sabato 22 – “Stop Painting” alla Fondazione Prada, nella sua sede veneziana, il palazzo storico di Ca’ Corner della Regina. Con un allestimento e una selezione di opere che ovviamente sono il ritratto del suo curatore, l’artista Peter Fischli (1952, Zurigo), appare chiaro fin da subito che “Stop Painting” è una missione impossibile, una ricognizione che per scelta non poteva che essere accuratissima e parziale, nella volontà di dare un tributo a quelle voci che hanno fatto della pittura “un’altra storia”, o “un’altra storia” della pittura.
Dai segni sul sicofoil di Carla Accardi, al tessuto mimetico utilizzato da Alighiero Boetti come “pura tela” (Mimetico, 1967); da pitture degli anni ’10 del ‘900 di Kurt Schwitters, divenuto celebre mondialmente per altre pratiche al Déjuner sur l’herbe di Alain Jacquet, tirato in serigrafia nel 1964, facendo sparire “l’aura” impressionista ma dotando la tela della stessa capacità retinica creata in questo caso industrialmente; da Adrian Piper che nel 1970 si aggira per le strade di New York indossando un cartello che reca l’indicazione “Wet Paint”, facendo dunque deambulare la pittura, passando per la pittura al metro di Pinot Gallizio, Apolinère Enameled di Marcel Duchamp e l’immenso Hudel di Jean-Frédéric Schnyder, che occupa il salone centrale al primo piano della Fondazione, sembra – alla fine della mostra e alla ricongiunzione di correnti e sale – che nulla manchi al catalogo.
La pittura diventa parola; la pittura al suo grado zero; la pittura diventa “cosa”; “I readymade che appartengono a tutti” sono solo alcuni dei macro-temi che si rincorrono tra le sale disposte e orientate da Fischli che, sul bel catalogo che accompagna la mostra, racconta delle sue “rotture”; la rottura con la pittura che doveva essere dichiarata morta, poi la necessità di eliminare l’autorialità della pittura, e ancora l’onta che lega la pittura al mercato; e anche la scomparsa della critica diventata obsoleta come le avanguardie e dunque come la pittura. Eppure l’artista-curatore scrive: «Perché smettere di dipingere? Meglio smettere di smettere di dipingere […] Nel contesto dei nuovi media la pittura conquista un nuovo potere di irradizione e beneficia dell’illuminazione più di ogni altra disciplina artistica».
Forse perché la pittura, essendo l’arte più antica del mondo, è anche la più contemporanea; il tempo l’ha plasmata, bruciata, “pisciata”, stilizzata e – appunto – infinite volte si è tentato di ucciderla. Eppure ancora oggi ci travolge, e ci fa riflettere sulla sua identità migrante, sfuggente e mai completamente ascrivibile a un ordine, a una regola. D’altronde la pittura, quando è lingua viva, è anarchica.
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