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Giuseppe Abate con ‘Here comes the rooster’ alla Galleria Michela Rizzo, Venezia
Opening
“Little darling, it’s been a long cold lonely winter | Little darling, it seems like years since it’s been here | Here comes the sun, here comes the sun”.
“Here comes the rooster”, la prima mostra personale di Giuseppe Abate negli spazi della Galleria Michela Rizzo, arriva, in maniera del tutto naturale e con uno sviluppo nel mentre, come il sole dei Beatles dopo un periodo lungo, freddo, malinconico, che è durato ben due anni.
«La galleria – ci dice Michela Rizzo – lavora da sempre con grandi maestri e artisti già affermati a livello internazionale ma, parallelamente, si muove sul fronte della ricerca, aprendosi ad artisti più giovani, che abbiano comunque un percorso già solido. In questo contesto il lavoro di Giuseppe Abate si colloca perfettamente: Giuseppe ha trentaquattro anni, è l’artista più giovane della galleria insieme a Matthew Attard, e approda alla galleria con una ricerca solida, ben costruita e con una sua maturità».
Abbiamo parlato con Michela Rizzo e Giuseppe Abate, ecco cosa ci hanno raccontato:
Giuseppe, come si sviluppa la mostra? Quali lavori saranno presentati?
«Tutti i lavori in mostra appartengono a un progetto a cui sto lavorando da due anni e che ha come soggetto il pollo. Dagli scarti del pollo e della lavorazione industriale a livello globale che si fa di questo animale, ho ricavato una serie di materiali come colori e pigmenti, dal sangue come dai gusci delle uova, ma anche dei mosaici e delle sculture – queste ultime per esempio realizzate con il cartone da imballo delle uova. In Galleria Michela Rizzo presento un corpus di varia tecnica: sculture, dipinti, mosaici, fino al cartone animato. Gioco un po’ con il titolo che, tradotto, dice “è arrivato il galletto” ed espongo tutto quello a cui ho lavorato reinterpretando anche immagini pubblicitarie, come di vita quotidiana londinese, con questi materiali oggetto del mio studio. Nel mio progetto il pollo, animale che cresce molto velocemente in qualunque tipo di contesto e allevato intensivamente, oltre che uno tra i cibi sicuramente più mangiati al mondo visto che nessuna religione lo vieta, non è che una metafora che vuole stimolare una più profonda riflessione sull’attuale società del consumo».
Giuseppe, come è iniziata questa ricerca?
«Questa ricerca inizia a Londra, nel 2019, quando alla Central Saint Martins seguivo il master “Material Futures”. Mi era stato richiesto di lavorare con materiali desueti o creati ex novo, sviluppando una riflessione sui materiali che siamo abituati a usare e su come potrebbero essere sostituiti. Mi sono affezionato all’idea di lavorare con il pollo quando una sera, al cinema, vidi una pubblicità della Kentucky Fried Chicken che aveva come colonna sonora la musica de Il Padrino e proponeva una serie di frasi che innestavano il dubbio che il Colonnello Sanders, mascotte di KFC, gestisse il racket del pollo fritto a Londra, dove per altro il pollo fritto è un piatto che si mangia molto spesso. Oggi la carne di pollo è economicissima, ma fino agli anni ’60 non lo era, quasi nessuno mangiava pollo per consumare invece le uova. E proprio negli anni ’60 la Kentucky Fried Chicken si presentò proponendo il pollo come il piatto della domenica per tutti. Come di fatto è diventato oggi: mangiamo pollo con l’illusione di qualcosa di eccezionale quando in realtà è finger food a basso costo. A Londra ci sono un sacco di locali che cucinano e vendono pollo fritto, costituendo anche un grande problema sociale in quanto spesso diventano teatro di vicende politicamente e socialmente scorrette. E come se non bastasse, Londra è la città dove, nell’800, nelle arene si poteva assistere al combattimento tra galli, incontrandosi e scommettendo su di loro senza più alcuna distinzione tra nobili e ceti meno abbienti. Quella stessa mescolanza non è che quella che si verifica oggi quando tutti, ognuno per un motivo, prima o poi mangiamo pollo fritto in qualcuno di questi locali».
Michela, Giuseppe, quando avete iniziato a parlare di questa mostra? Che strada, o che strade, avete percorso, singolarmente e insieme, per arrivare a questo punto?
Michela: «Per i miei parametri è stato un percorso molto veloce. Conoscevo già e stimavo Giuseppe, pur non avendo ancora avviato con lui alcun tipo di rapporto professionale. Quando poco più di un anno fa è venuto a presentarmi e propormi questo progetto ne ho capito subito la forza, riscontrando anche il progresso notevole che Giuseppe aveva fatto, mostrandomi un progetto maturo e ben lavorato professionalmente. Così entusiasta ho sentito la voglia di dargli spazio e ho compreso di doverlo fare in fretta, vista la portata attuale. Ho fatto degli spostamenti nella programmazione, che è sempre molto fitta, e sono contenta di averlo fatto perché credo nel progetto e in lui».
Giuseppe: «Come diceva appunto Michela, abbiamo iniziato a parlare del progetto quando gliel’ho mostrato al mio ritorno da Londra. Sono stato molto contenta dell’interesse che Michela ha manifestato fin da subito. Devo ammettere che è un progetto che ci si è sviluppato tra le mani arrivando in maniera del tutto naturale e senza sforzi a questo punto».
Michela, la mostra di Giuseppe coincide quasi con la chiusura del 2021. Che anno è stato e che anno nuovo ti aspetti?
«È stato un grande anno. Dopo le difficoltà, finalmente le riaperture ci hanno permesso di lavorare molto bene e soprattutto di portare avanti progetti magnifici in cui ho creduto molto. Dopo due anni di attesa dovuti alla pandemia, siamo riusciti a fare un’importante mostra di Andrea Mastrovito, seguita poi dall’approfondita doppia personale che ha messo in dialogo due grandi maestri, Claudio Costa ed Hermann Nitsch “Il viaggio nell’ancestrale”, che abbiamo dedicato alla memoria di Massimo Melotti, al quale si deve l’idea originaria di accostare i due artisti e il titolo. La riapertura ha portato anche alla ripresa delle fiere, in questo autunno ne abbiamo fatte ben cinque, raccogliendo i frutti di una grossa parte di lavoro. Voglio aggiungere poi che il 2021 ha assunto anche un altro significato molto importante, che prende il nome di collaborazione. Abbiamo infatti aperto nuove collaborazioni con altre gallerie. Una su Milano, con dei galleristi con cui coltiviamo un rapporto di fiducia, stima e sostegno reciproco da anni, di cui spero presto di poter annunciare novità. E un’altra invece a Venezia, con la galleria Marignana Arte, destinata a durare nel tempo, per lavorare insieme, sincronicamente, sull’artista Maurizio Pellegrin. Con anche questa prospettiva di aprire sempre nuovi scenari, posso dire che sono molto soddisfatta del percorso fatto e con questo spirito aspettiamo il 2022, il cui arrivo ci avvicina alla Biennale di Venezia: impegni ed energie sono già focalizzati a quei mesi».