“Linea Appennino 1201” è la personale di Angelo Bellobono, curata da Elisa Del Prete, che mercoledì prossimo, 16 gennaio, negli spazi di Albumarte, a Roma, svelerà i dipinti nati dal percorso che la scorsa estate l’artista ha compiuto, a piedi, lungo la dorsale appenninica, dal limite Sud calabro-lucano del Pollino-Dolcedorme fino all’estremo Nord del Monte Maggiorasca in Liguria. Abbiamo chiesto all’artista di raccontarci questa singolare impresa.
Ci puoi raccontare il viaggio che ha generato questa mostra?
«”Linea Appennino 1201” è un progetto di terra, di passi e di sudore. Attraverso la fatica e il movimento, la percezione del paesaggio si modifica, così come la percezione del corpo. Si attivano sensi, si generano visioni che vanno oltre l’aspetto contemplativo. Il paesaggio diventa spazio in cui muoversi, superficie per accogliere una pittura immaginata.
Lo scorso 10 agosto sono partito dalla Calabria, precisamente dal massiccio del Pollino, selvaggio bastione calabro-lucano, e tracciando una lunga linea di cresta – ponte e cerniera del nostro antico e alto midollo -, sono risalito fino al Monte Maggiorasca in Liguria, toccando le cime del Docedorme, del Matese, del Monte Meta, del Gran Sasso, del Gorzano, Vettore, Prado e Cimone. Questo cammino è stato un atto di restituzione e sconfinamento sensoriale, necessario a generare quel dialogo corporale fatto di fatica, visione, trasformazione e creazione. Di ogni vetta ho ritualmente raccolto un sacchetto di terra, e tutte le terre, mescolate insieme, hanno generato opere e in particolare l’opera “Monte Appennino”, somma di terre, immagini, venti, luoghi, leggende e realtà di ognuna di esse.
Quando si comincia un’erranza, come quella di 1201 km compiuti questa estate, non sempre si conoscono dettagliatamente percorso e difficoltà. Pur costruendo una dettagliata mappa tecnico – emozionale, c’è sempre un’attivazione di memoria per ciò che si conosce, e di immaginazione per ciò che è nuovo. Rumore e silenzio, roccia, terra, erba, vento, ghiaccio, cielo, montagne, acqua, paesi. Strati di mondo uno sull’altro, ognuno punto di partenza e mai di arrivo, cercando spesso un ritorno. Prima di ogni passo c’è già un lungo viaggio compiuto dentro di me. Prima di ogni gesto c’è tanto movimento invisibile da decifrare, ed è quello che più mi attrae.
In questo progetto non mi interessavano le vette come simboli di conquista romantica, ma la loro connotazione geografica. Considero le cime aree di sosta temporanea per esseri e cose in movimento, dove si sperimentano incontri e mescolanze. Il grande Appennino è una nave che fluttua al centro del Mediterraneo, dialogando con l’Oriente e l’Occidente, con il Sud e con il Nord».
Che cosa si vedrà in mostra? Come si inserisce, questo progetto espositivo, nel tuo percorso di ricerca?
«Dipingo per tornare a casa. La pittura è la mia mappa fatta di sudore, vento, freddo, sole, salite e discese, è la costruzione del sentiero. In mostra ci sarà la pittura raccolta lungo il cammino, una pittura che non cerca accoglienza nel quadro, ma lo usa per uscirne e per far uscire chi lo osserva. Mi piace pensare che il dipinto sia solo un pretesto, per attivare suggestioni e accadimenti immaginari che vivono, invisibili, al di fuori di esso. Non mi interessa riprodurre un’immagine, ma immaginare gli strati sommersi e quelli che si accumuleranno. Un albero che vive da oltre mille anni non è solo un albero, ma un monumento nel paesaggio che accoglie mille anni di venti, di voci, di piogge, di Sole e luce. Allo stesso modo io stesso devo diventare terra, neve, vento o roccia per poterlo ascoltare. Il suolo, il ghiaccio, sono immensi archivi di memoria di un pianeta che non è mai lo stesso. Pittura, quindi, come distillato di esperienze complesse, che può rappresentare un atto di decolonizzazione dalla bulimia delle immagini omologate, che oggi, attraverso il web, colonizzano e accelerano il nostro vissuto. “Linea Appennino 1201” costituisce il naturale proseguimento di altri progetti già avviati negli ultimi dieci anni in aree rappresentative del Mediterraneo, grande “lago di montagna” incastonato tra le vette che lo incorniciano. Per tante ragioni le terre alte e interne sono poco appetibili per le istituzioni, semplicemente perchè faticose. Richiedono un patto di reciproca appartenenza dettata dal corpo e dagli sforzi che questo compie per conoscerle e viverle in modo sostenibilmente produttivo e visionario. Il progetto si pone in tale contesto come momento di riflessione sull’Italia interna e alta, un percorso di memoria per costruire futuri possibili, un ponte tra Nord e Sud continuando quel processo di connessione e dialogo tra popoli che caratterizza la mia attività. Esempio di ciò, sono i miei numerosi progetti a lungo termine intrapresi negli anni, che scavano nei profondi rapporti tra uomini e territori, raccontando identità individuali e collettive a cavallo tra antropologia e geologia. Tra questi in particolare vi sono “Io sono Futuro”, nelle areee appenniniche colpite dal sisma del 2016: “Atla(s)now” con le comunità Amazigh dell’Alto Atlas marocchino; “Before me and after my time” con la comunità dei Nativi americani Lenape, i primi abitanti di New York».
Quali saranno i tuoi prossimi progetti espositivi?
«Cerco, indipendentemente da tutto, un quotidiano rapporto con la pittura, il suo divenire sempre qualcosa di nuovo e inaspettato, in grado di meravigliarmi e sorprendermi, senza però cogliermi troppo impreparato. Oltre che proseguire e arricchire i progetti sopramenzionati, sto preparando, per la prossima primavera, una mostra a Melbourne, in Australia, che nasce dalla relazione tra quattro artisti italiani e quattro italo-australiani, Anche in questo caso, e per ragioni fortuite, l’Appennino entrerà a far parte del progetto». (Silvia Conta)
Angelo Bellobono
Linea Appennino 1201
A cura di Elisa Del Prete
16 gennaio – 28 febbraio 2019
AlbumArte
Via Flaminia 122, Roma
Opening: mercoledì 16 gennaio 2019, ore 18.30
Orari: Martedì – sabato, ore 15.00 – 19.00
www.albumarte.org, info@albumarte.org