Eccoci a Venezia nei giorni d’inaugurazione della Biennale. Tante le mostre in città, tanti i visitatori, gli artisti e gli addetti ai lavori. Nonostante la pioggerellina le calle sono piene, tanti scambi, incontri, pubbliche relazioni: le mostre sono occasioni di visione e di relazione. Entrando a Palazzo Fortuny però sembra restare solo l’elemento visione e la dimensione introspettiva e mentale prende il sopravvento nel segno dell’intuizione. E “Intuition” è il titolo della mostra – curata da Daniela Ferretti e Alex Vervoordt – costruita attraverso il lavoro di oltre 100 artisti noti e anonimi, storici e viventi per indagare i modi in cui l’intuizione ha a che fare con l’arte nel suo aspetto più effimero fatto di immagini, visioni improvvise, lampi di pensiero spesso inspiegabili, ma determinanti.
L’atmosfera è in penombra, le opere talvolta sembrano sospese; sono buie, sono lucenti. Al primo piano sono talvolta improvvisamente illuminate dalle luci di Alberto Garutti connesse con la presenza di fulmini che in questo momento interessano il cielo italiano. Luci che sorprendono sculture primitive, i lavori di Cabrita Reis, Boccioni, Borremans, Ensor, De Chirico, Giacometti, Twombly solo per citarne pochi e vari.
In questi giorni di apertura si ha il privilegio di assistere alle performance e di incontrare gli artisti. A noi è capitato di incrociare Matteo Nasini pochi minuti prima dell’inizio della sua performance Sparkling Matter, un lavoro che registra e analizza l’attività della corteccia cerebrale di un dormiente traducendola in suono e scultura.
Come hai pensato al lavoro sul suono, la mente e il sonno all’interno di questo spazio?
«Si tratta di un lavoro performativo sul suono che ha ricadute gestuali. Qui siamo nell’atelier di Fortuny che in qualche modo ho voluto far rivivere. Sul letto c’è un dormiente disteso la cui attività cerebrale è monitorata e trasformata in suono e materia. Quando la zona del cervello si attiva emette un segnale variabile, questo viene trasformato in un suono indipendente. Le sculture si generano a partire dai dati numerici degli encefalogrammi che danno coordinate spaziali trasmesse alla stampante 3D. In questo senso la performance riprende la dimensione di atelier perché diventa un luogo in cui si fanno le cose».
Si vedono infatti sculture appena create, altre già definite. Sono dei sogni! Vengono tutte dalla mente del dormiente. Possiamo definirlo un lavoro sulla trasformazione?
«Avviene una trasformazione di suono e materia. Anche se la visione del sogno è instampabile! Viene trasformata. Resta una incomunicabilità che è un bel mistero. Noi siamo separati dal mondo del sonno, lo percepiamo ma non sappiamo. C’è una sorta di irraggiungibilità del sublime».
Quanto conta la tecnologia in questo lavoro?
«Molto. È attraverso la tecnologia che avviene la trasformazione. Esiste un legame indissolubile ormai tra noi e la tecnologia: definisce relazioni e identità». (Giuliana Benassi)