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Josh Rowell racconta ‘Rhizoma’, la mostra che ha inaugurato negli spazi di Atipografia ad Arzignano
Opening
di Emma Drocco
Una connessione simbiotica tra regno naturale e universo digitale. Rhizoma, a cura di Andrea Maffioli, ne evidenzia gli schemi condivisi, le sinergie e le interdipendenze tra questi due mondi che ci sembrano così diversi.
Un lavoro complesso quello in mostra da Atipografia ad Arzignano in provincia di Vicenza, spiegato da Josh Rowell (Kent, 1990), l’artista britannico che ha fondato la sua visione artistica proprio sulle innovazioni tecnologiche che plasmano la nostra vita quotidiana.
Rhizoma esplora quella connessione simbiotica tra il regno naturale e il mondo digitale. Da cosa nasce l’idea per questa mostra?
«Nel corso del mio percorso artistico ho sempre tratto ispirazione dal regno virtuale, sia attraverso l’adozione dei codici nei miei dipinti, sia attraverso l’esplorazione delle culture emergenti su Internet; ispirarmi al digitale è sempre il mio punto di partenza. Sono affascinato dagli enormi cambiamenti che l’umanità sta vivendo nel XXI secolo a causa dell’espansione tecnologica e ritengo fondamentale realizzare opere che affrontino queste idee. Spesso incorporo un elemento di contraddizione nel mio lavoro, realizzato a mano con tecniche tradizionali come la pittura su tela o la realizzazione di mosaici. Il desiderio di continuare a realizzare opere in modo analogico è dovuto al desiderio personale di dimostrare che la mano dell’uomo ha ancora una sua utilità nell’epoca moderna. Mentre la vita moderna continua a essere avvolta dal digitale, ritengo fondamentale continuare a risiedere nello spazio fisico e reale che i nostri corpi abitano.»
Cosa rappresenta per te Rizoma?
«È il risultato di un’esplorazione decennale dei temi che mi sono più cari che mi ha portato a creare Rhizoma, la mia ultima mostra e un punto di partenza da cui continuerò a incorporare nuove idee e temi nella mia pratica. Per la prima volta, sto andando oltre il concetto di digitale contro artigianale e sto iniziando a guardare alle relazioni preesistenti tra il digitale e il naturale. Spesso pensiamo che il mondo naturale che ci circonda sia la totale antitesi della società ossessionata da internet in cui viviamo, ma io cerco di comunicare una percezione alternativa. Avendo trascorso gli ultimi anni immergendomi nella natura, mi sembra sempre più chiaro che il mondo naturale e quello digitale sono in realtà molto simili nel modo in cui operano. Entrambi si basano su una serie di reti e sistemi interconnessi attraverso i quali viaggiano informazioni e messaggi. Così come quantità incommensurabili di dati si trasferiscono da un luogo all’altro nello spazio di Internet, allo stesso modo le informazioni si muovono liberamente nel mondo naturale da pianta a pianta attraverso reti complesse. Voglio sfidare l’ipotesi che le reti e i sistemi siano invenzioni dell’uomo e suggerire invece che stiamo semplicemente copiando ciò che è sempre esistito.»
Il concetto di rizoma già negli anni 70 ha subito uno slittamento dalla botanica alla semantica quando venne adottato da Gilles Deleuze e Felix Guattari, teorici postmoderni, per descrivere un modello semantico acentrico e non gerarchico, un processo di esistenza e crescita da opporre ai tradizionali modelli ad albero, imperniati sui concetti di centro e gerarchia. Puoi spiegarci come il rizoma influisce sulla tua interpretazione della relazione tra natura e tecnologia?
«Il concetto di rizoma, sia dal punto di vista botanico che filosofico, si presta naturalmente nella mostra, in quanto cerco di colmare il divario tra le reti decentralizzate nel mondo naturale e di tracciare analogie con quelle digitali. Non c’è esempio più grande di rizoma nel senso che gli viene attribuito da Deleuze di internet stesso; una piattaforma veramente decentralizzata e non gerarchica con un potenziale di espansione laterale apparentemente infinito. Un numero incommensurabile di nodi e connessioni forma una rete di percorsi attraverso i quali le informazioni si trasferiscono in modo costante e incessante; la scala e la velocità di espansione di Internet sono davvero sbalorditive. Ma allora dobbiamo guardare alle funzioni del mondo naturale, agli antichi ecosistemi che si basano su reti altrettanto complesse per sopravvivere.»
Ma quindi qual è il rizoma dell’era digitale?
«È sicuramente internet, come il micelio (strutture radicali fungine che esistono sotto il suolo) è sicuramente il rizoma emblematico del mondo naturale che ci circonda. Le reti di miceli che crescono sotto i nostri piedi sono la rete di connessione della sfera botanica; collegano le piante ad altre piante. Gli alberi, in particolare, sono in grado di utilizzare questa rete per inviare segnali e sostanze nutritive agli alberi e alle piante vicine, in un modo sorprendentemente simile al modo in cui gli esseri umani possono interagire nello spazio digitale.
Per me, questa mostra non si propone di distinguere tra l’interpretazione botanica e quella filosofica del rizoma, ma piuttosto di evidenziarne le analogie. Sono come due facce della stessa medaglia, ognuna rivolta in una direzione diversa, ma allo stesso modo abitano lo stesso corpo.»
Hai dichiarato di aver recentemente spostato il focus del tuo lavoro per abbracciare tematiche più ampie, come reti e sistemi naturali ed artificiali. Qual è stato il motivo di questa transizione e cosa ti ha spinto a esplorare questi temi?
«È sempre importante ampliare il proprio corpo di ricerca come artista e continuare a incorporare nuovi temi ed elementi nella propria pratica, altrimenti si rischia di fare lo stesso lavoro anno dopo anno. Rhizoma rappresenta in effetti il più grande cambiamento nel mio lavoro da diversi anni a questa parte, una posizione entusiasmante per un artista. Da un lato, la decisione di iniziare a esplorare le reti naturali e artificiali potrebbe non sembrare un grande cambiamento, dato che il mio lavoro ha sempre esplorato il rapporto tra il digitale e il reale. Invece il lavoro prodotto per questa mostra è drasticamente diverso: sono esposte serie, tecniche e modalità di ricerca completamente nuove, dall’installazione luminosa e sonora ai dipinti multimediali realizzati a mano su stampa digitale.
Il motivo principale di questo cambiamento di tema e di applicazione è il desiderio di realizzare un lavoro autentico che sia fedele alla persona che sono oggi. Nel corso della vita i nostri gusti, interessi, desideri e così via si evolvono e cambiano costantemente con noi. Come artista, è fondamentale essere in sintonia con questi sviluppi e adattare il proprio lavoro di conseguenza, altrimenti si rischia il distacco dall’opera che si sta sviluppando.»
La mostra presenta una serie di installazioni multimediali, dipinti e disegni. Puoi condividere con noi un’opera o un progetto specifico che consideri particolarmente rappresentativo del tuo messaggio in questa esposizione?
«Credo che dovrò scegliere l’installazione principale della mostra, l’omonima Rhizoma. All’inizio della mostra lo spettatore si trova di fronte a un’installazione multimediale che comprende tre alberi collegati da strisce LED che a loro volta alimentano frasi LED su due pareti adiacenti che recitano “sempre connessi” e “mai soli”. Si tratta dell’installazione più grande che ho realizzato e della mia prima opera installativa da diversi anni a questa parte. L’opera vuole esplorare le reti interconnesse del mondo naturale, fondendole contemporaneamente con il digitale. I tre alberi sono posizionati fuori dal terreno e permettono alle loro radici contorte di espandersi nello spazio; dalla base di ogni albero emerge una grande striscia luminosa a LED che invia impulsi di luce blu elettrico attraverso di essi, come se le informazioni fluissero liberamente da una pianta all’altra. Due degli alberi sono collegati dai LED a due frasi distinte sulle pareti vicine. Queste frasi illuminano lo spazio in un mix vorticoso di luce blu e verde.
“Sempre connessi”, “mai soli”, sono frasi aperte, che lasciano spazio all’interpretazione dello spettatore, ma per me sono altamente specifiche e accuratamente selezionate. Quando parliamo di connettività nel XXI secolo tendiamo a farlo in termini di mondo digitale: siete connessi al wi-fi? Siete connessi ai dati del vostro cellulare? Se non si accede alle applicazioni dei social media per un po’ di tempo, la gente inizia a chiedersi perché, c’è quasi una pressione ad essere sempre connessi a Internet. Ma non è questo il motivo per cui uso questa frase, per me si tratta più che altro di liberazione da questa pressione costante, una libertà che sperimento quando sono nella natura e il risultato della consapevolezza che non è necessario avere un dispositivo o internet per essere sempre connessi.»
Quindi qual è il luogo in cui hai provato la più forte ‘connessione’?
«In effetti, ho provato un maggior senso di connessione in alcuni dei luoghi più isolati, sperduti in una foresta o vicino a un lago, che nel mezzo di una città trafficata. Byron scrisse una volta: “C’è piacere nel bosco senza sentiero, c’è estasi sulla riva solitaria, c’è società dove non esiste, presso il mare profondo e musica nel suo ruggito. Non amo meno l’uomo, ma più la natura”. È questo il concetto e la consapevolezza che nel mondo naturale c’è lo stesso senso di connettività che c’è nel digitale. Si è sempre connessi, la vita stessa è un insieme infinitamente complesso di interconnessioni e noi ne siamo parte integrante. L’espressione “Never alone” si riferisce alla stessa idea: per quanto si possa essere isolati o persi nel mondo naturale, non si è mai veramente soli. Per quanto si possa essere lontani dal contatto umano, si può trovare conforto nel fatto che si è circondati da milioni di anni di evoluzione. Il vostro corpo biologico è in armonia con gli altri che lo circondano e, se ve lo permettete, potete sentire una sensazione di grande distanza se lo permettete, in questo ambiente potete provare un senso di connessione molto più profondo di quello che potete ottenere attraverso il vostro dispositivo.
L’uso dell’illuminazione a LED è una contraddizione intenzionale con la sensazione di naturalezza degli alberi, un cenno alla connessione simbiotica tra le funzioni del naturale e del digitale.»
Si potrebbe pensare che l’uso di tecniche tradizionali non sia compatibile fino in fondo con l’era digitale. Come bilanci l’artigianato con la tecnologia nelle tue opere?
«Nel regno dell’arte post-internet o di qualsiasi arte che tocchi questi concetti, l’attenzione spesso gravita verso i nuovi media, il video, le installazioni di luce e suono, tra gli altri. Tuttavia, sono sempre stato ispirato ad affrontare questi temi contemporanei attraverso mezzi più tradizionali, fatti a mano.
Il mondo digitale è, per sua natura, confinato nello spazio virtuale, qualcosa che non possiamo toccare fisicamente. Pertanto, ho scelto di creare opere d’arte tangibili e fisiche perché credo che questa scelta apra un’affascinante via di esplorazione. La mia motivazione per questo approccio nasce da un personale senso di conflitto interiore e di contemplazione, un sentimento che sospetto risuoni in molti nella nostra società moderna. Stiamo assistendo allo spostamento di una parte crescente della nostra vita quotidiana in questo regno virtuale intangibile. È uno sviluppo positivo? Non ho una risposta definitiva, ma è per questo che scelgo di trasformare il codice in tele dipinte a mano piuttosto che scrivere semplicemente un programma di base e stampare i risultati. In questo modo, intendo sia imitare il linguaggio del computer sia suggerire che noi, come esseri umani, possediamo ancora un’agenzia e una rilevanza nella nostra società tecnologicamente avanzata.
Con il mio lavoro voglio celebrare il fatto a mano e suggerire che, anche di fronte alla scomparsa dell’esistenza umana nell’etere, la mano dell’uomo gioca ancora un ruolo importante nella creazione.»
Trasferirsi in un ambiente rurale sembra essere stata una scelta significativa nella tua vita. In che modo questa decisione ha influenzato il tuo lavoro artistico e il tuo punto di vista sulla natura?
«Negli ultimi anni mi sono trasferito da una grande città a una piccola città, e di nuovo dalla città a una località molto rurale. È stato un momento estremamente significativo della mia vita e ha naturalmente influenzato il mio lavoro, diventando il motore principale della maggior parte della mostra Rhizoma. In particolare, la differenza di stile di vita tra il vivere in una città frenetica e uno stile di vita più rilassato in campagna è molto pronunciata. Molte delle mie prime idee sono nate vivendo a Londra, un luogo importante in cui ci si affida alle app per navigare nelle complesse reti di trasporto, dove 10 milioni di persone vivono confinate in un’area sorprendentemente piccola e molte altre vengono ogni giorno a lavorare. C’è un’incessante routine quotidiana che è unica nella vita di città, è un ambiente che non dorme, non si ferma e richiede sempre più l’uso della tecnologia per sopravvivere. App per prendere un taxi, app per navigare nella metropolitana, app per comprare i biglietti; senza la tecnologia qui si è persi. Amavo la mia vita in città, ma sapevo di non poterla mantenere.»
Dove vivi ora?
«Dall’anno scorso vivo in una fattoria al confine tra Kent e Sussex, nel sud-est dell’Inghilterra. Il nostro vicino più prossimo è un capannone per il bestiame a circa 250 metri lungo il sentiero della fattoria, e quando apro la finestra della mia camera da letto al mattino vedo solo campi fino alle South Downs. Si tratta di uno stile di vita molto diverso, che ho scelto intenzionalmente. Non ho bisogno di prendere la metropolitana per andare alla ricerca di spazi verdi, mi basta uscire dalla porta di casa. Posso coltivare le mie verdure, il mio cane può correre liberamente, l’aria è fresca, il cambio delle stagioni è molto più evidente. Mi piacciono tutte queste cose e potrei elencarne molte altre; ma è soprattutto questo passaggio dalla vita tecnologica della città allo stile di vita semplice della campagna che ha ispirato gran parte di Rhizoma e tutto il mio lavoro attuale. Nell’ultimo anno ho trascorso più tempo a perdermi nei boschi intorno a casa mia ed è proprio la crescente comprensione del mondo naturale che mi ha colpito molto. Il senso di connettività che esiste in questi luoghi, sentieri che potrebbero essere calpestati da piedi umani solo una o due volte alla settimana, è ciò che voglio esprimere attraverso il mio lavoro. Nel XXI secolo tutti noi abbiamo un rapporto di spinta e di allontanamento con la tecnologia; suppongo di trovarmi in un periodo della mia vita in cui sto cercando (non necessariamente riuscendoci) di allontanarmi sempre di più da questo stile di vita tecnologico e frenetico.»
Se dovessi pensare ad un percorso ideale dal punto di vista dello spettatore, con che preconcetti sulle tematiche trattate credi che arrivi il visitatore e su cosa ti auguri rifletta o ricordi dopo aver visto la mostra?
«Voglio che i miei spettatori vengano con la mente aperta. Con un titolo come Rhizoma penso che possano immaginare di entrare in una mostra noiosa e troppo autocelebrativa sulla teoria semantica postmoderna. Ma non è affatto così: il mio lavoro è, e sarà sempre, accessibile. Voglio che tutti ne traggano qualcosa, sia che abbiate un dottorato in storia dell’arte sia che entriate in una mostra d’arte contemporanea per la prima volta nella vostra vita: questa è sempre la mia priorità e credo fermamente che l’arte debba essere per tutti.»
Che messaggio vuoi trasmettere con il tuo lavoro?
«Penso che, come esseri umani, abbiamo una naturale arroganza quando si tratta di cose che abbiamo inventato, e spesso un disprezzo per il mondo naturale. Forse cadiamo nella trappola di pensare di essere dei geni per aver sviluppato Internet, ma voglio che gli spettatori della mia mostra se ne vadano pensando che forse Internet è solo una copia delle intricate reti e dei sistemi che il mondo naturale ha sviluppato fin dall’inizio della vita stessa. Voglio che siamo umiliati da questo concetto, ma anche ispirati. Voglio che tutti sappiano che anche senza accesso a Internet si è sempre connessi e che quando ci si perde nel bosco non si è mai soli.»