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La Collezione Peggy Guggenheim presenta la grande mostra ‘Marcel Duchamp e la seduzione della copia’
Opening
di Emma Drocco
«Tutto quello che ho fatto di importante potrebbe stare in una piccola valigia», disse Duchamp, e così è stato, come dimostra Boîte-en-valise, l’opera al centro della prima grande personale che la Collezione Peggy Guggenheim dedica a Duchamp, lo storico amico nonché consigliere della mecenate americana Peggy Guggenheim. Marcel Duchamp e la seduzione della copia, a cura di Paul B. Franklin, studioso indipendente residente a Parigi e tra i massimi esperti di Marcel Duchamp (1887-1968) e sarà visitabile fino al 18 marzo 2024.
In mostra una sessantina di opere realizzate tra il 1911 e il 1968, unite dal desiderio comune di sfidare le convenzioni e di rifiutare la gerarchia tra originale e copia, vedendo nella standardizzazione il nemico numero uno, come spiega il curatore durante la conferenza stampa. Lavori iconici provenienti dalla Collezione Peggy Guggenheim, come Nudo (schizzo), Giovane triste in treno (1911-12) e da o di Marcel Duchamp o Rrose Sélavy (Scatola in una valigia) (1935-41), e da altre prestigiose istituzioni museali italiane e statunitensi, tra cui la Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, il Philadelphia Museum of Art, il Museum of Modern Art di New York, il Solomon R. Guggenheim Museum di New York. La metà delle opere provengono invece dalla preziosa collezione veneziana di Attilio Codognato, un lungimirante collezionista che fin dai primi anni ’70 si è interessato alla produzione dell’artista francese.
Per tutta la sua carriera Marcel Duchamp ha messo in discussione la tradizionale gerarchia tra originale e copia, «Per quanto riguarda la distinzione tra il vero e il falso, tra l’imitazione e la copia, si tratta di questioni tecniche totalmente idiote». E cosa rendeva allora un’opera d’arte tale? Erano le idee incarnate all’interno di essa, che avevano un’importanza pari, se non addirittura superiore, all’oggetto fisico. «A me interessavano le idee, non soltanto i prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della mente […] Di fatto fino a cento anni fa tutta la pittura era stata letteraria o religiosa: era stata tutta al servizio della mente. Durante il secolo scorso questa caratteristica si era persa poco a poco. […] La pittura non dovrebbe essere solamente retinica o visiva; dovrebbe aver a che fare con la materia grigia della nostra comprensione […] Gli ultimi cento anni sono stati retinici. Sono stati retinici perfino i cubisti».
Peggy Guggenheim e Duchamp
Non ci sono dubbi sull’eccezionalità del ruolo storico attribuito a Marcel Duchamp nel corso dell’intero XX secolo, epoca di rivoluzione artistica iniziata con i Fauves nel 1905 e proseguita con altri movimenti ormai celebrati come il Cubismo, il Futurismo, il Surrealismo, l’Espressionismo nelle sue varie declinazioni, la Pop Art, l’Informale, il Concettuale, ecc. L’eccezionalità di Duchamp risiede proprio nel suo essere presente, come ispiratore diretto o indiretto, in gran parte dei movimenti di avanguardia del Novecento, in una sfida continua alle convenzioni.
Un punto fondamentale nella storia di questo grande artista è sicuramente il 1923, quando Duchamp conosce Peggy Guggenheim a Parigi, della quale, diversi anni dopo, nel 1937, diventerà mentore e tra i consiglieri più fidati della mecenate. È infatti l’anno in cui si trova in procinto di aprire la sua prima galleria a Londra, la Guggenheim Jeune, che inaugura il 24 gennaio 1938, e a dare così inizio alla sua iconica collezione d’arte.
Nella sua autobiografia, Confessions of an Art Addict (1960), Guggenheim ricorda: «Avevo veramente bisogno di aiuto. Mi venne in soccorso un vecchio amico, Marcel Duchamp. […] Non so cosa avrei fatto senza di lui. […] Devo ringraziarlo per avermi introdotto nel mondo dell’arte moderna».
Boîte-en-valise
«Spesso pensavo che sarebbe stato molto divertente andare a trascorrere un fine settimana portandosi dietro quella valigia, invece della solita borsa che si riteneva indispensabile», racconta Peggy Guggenheim nella sua autobiografia.
Sicuramente la situazione drammatica e incerta dei difficili anni della Seconda guerra mondiale contribuisce alla nascita di un oggetto facilmente trasportabile: un piccolo museo portatile, che simula l’ambiente di una stanza, perfettamente in scala, un modo per l’artista di conservare e facilmente trasportare una selezione delle sue opere più importanti in una forma simbolica. La Boîte è al tempo stesso album, catalogo, portfolio tridimensionale, opera e museo, certo una versione reinventata e dissacrante del museo, senza pareti e mobile, composto di copie miniaturizzate e trasportabili, meccanismo pronto a nuovi allestimenti senza l’ausilio di curatori o conservatori. Un vero e totale spazio indipendente, paradossale ready made del concetto di museo.
Con un solo gesto Duchamp arriva infatti al cuore di tematiche fondamentali per l’arte e per la riflessione museologica, in primis il rapporto tra originale, copia e riproducibilità dell’opera d’arte. Gli anni di elaborazione della Boîte sono gli stessi in cui Walter Benjamin pubblica il suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, in cui riflette sull’idea di aura dell’opera. Paul B. Franklin durante la conferenza stampa racconta come lo stesso Benjamin avesse aggiunto nel suo lavoro un capito dedicato al suo lavoro, con un appunto ‘Duchamp nude beautiful’, un capitolo poi eliminato in quanto complicava molto il suo ragionamento considerando che per Duchamp «sia l’originale che la copia possiedono una propria aura.»
Un percorso oltre la divisione tra originale e copia
Marcel Duchamp e la seduzione della copia racconta i molteplici approcci adottati da Duchamp per duplicare le proprie opere senza soccombere alla copia pura e semplice. Organizzata intorno a vari temi tra loro correlati, origini, originali e somiglianze di famiglia; il passato è un prologo; la magia del facsimile; copie autentiche; disciplinare e rendere più audace la mano; clonare il sé, vestire l’altro; ripetizione ipnotica; temi e variazioni. Una panoramica sull’ossessione di Duchamp per la replica come mezzo specifico di espressione artistica che ci permette di comprendere fino a che punto le sue creazioni bizzarre e spesso ibride abbiamo confuso e talvolta del tutto eluso le classificazioni artistiche in uso al momento in cui furono create.
Nella nostra era digitale sempre più complessa, che ha dato origine ai meme, alla realtà virtuale, alla stampa 3D, ai certificati non-fungibili (NFT), agli avatar e all’intelligenza artificiale (IA), i confini tra l’originale e la copia, il reale e il fasullo, il vero e il falso, il materiale e l’immateriale, l’umano e il non umano sono sempre più labili. È proprio in questo clima così turbolento che gli interrogativi mirati e provocatori sollevati già negli anni dieci da Duchamp sulla creazione artistica e la riproduzione continuano a essere estremamente attuali.