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Metteteci un gruppo indipendente di giovani artisti italiani, una band di indie-rock siciliana, un’opera di land art firmata da Alberto Burri tra le più estese d’Europa (circa 85 mila mq), oltre a un piccolo paese nel trapanese, Gibellina, da quasi mezzo secolo in prima linea per non farsi dimenticare.
Il risultato è “The Dance of the Living Stones”, il progetto video di Angelo De Grande girato nell’agosto del 2016, oggi raccontato attraverso oltre cento scatti dei due fotografi ufficiali Lara di Leo e Pietro Alfano, presentati in anteprima a Milano presso i locali della Mediateca Santa Teresa (via della Moscova 28), nell’ambito del MilanoPhotofestival.
Il percorso espositivo si propone di documentare un caso interessante di performing arts, una centrifuga di teatro, danza e musica per illustrare, in modo originale, l’immagine del territorio siciliano e un pezzo di storia italiana. Il set prescelto è, infatti, il Grande Cretto di Burri che sorge sulle ceneri di quello che era il paese di Gibellina prima che, nel 1968, il terremoto della Valle del Belice lo radesse al suolo. Burri si commosse davanti alla devastazione provocata dal terremoto e propose di coprire le macerie del paese distrutto, mantenendone l’impianto urbanistico, con un’immensa colata di cemento bianco. Un progetto poetico e avveniristico che sin dall’inizio si è scontrato con la carenza di fondi necessari alla sua realizzazione. La messa in opera cominciò nel 1985, ma già nel 1989 fu interrotta lasciando l’opera incompiuta per circa un terzo della superficie totale, fino al 2015. Appena conclusi finalmente i lavori si è reso, però, subito necessario il restauro della parte realizzata nei decenni precedenti. Insomma, il Grande Cretto di Burri sembra non trovare pace. E con questo suo destino instabile diviene il palcoscenico “dinamico” perfetto per i performers di “The Dance of the Living Stones”, immortalati negli scatti fotografici con il corpo ricoperto di argilla spaccata, mentre emergono dal Grande Cretto riproducendo a passi di danza il dialogo tra il nuovo (la parte dell’opera più recente, ancora bianca, “fresca”) e il vecchio (la parte più antica, grigia e ormai ricoperta di vegetazione). Un racconto creativo di speranza. Un elogio poetico alla memoria. Certo. Ma che, forse involontariamente, documenta nel contempo uno dei tanti casi italici di mancato tempismo. Quando si tratta di realizzare o mantenere un’opera d’arte pubblica. Oppure di garantire un domani migliore a una popolazione terremotata. (CBS)