A Capalbio (Grosseto), negli spazio dell’Associazione Culturale Il Frantoio, oggi, 14 agosto, alle 19.30 la fotografa Silvia Sasso (1973, Roma) incontra il pubblico per raccontare la personale “Vista da dentro”, aperta da due giorni e di cui qui potete trovare tutte le opere esposte.
La mostra si colloca nel progetto “Temporary Art” e, dopo il lavori di Dimitri Angelini, Maurizio Savini e Francesca Beatrice Borri, sono le opere di Silvia Sasso a occupare lo spot dello spazio espositivo dell’Associazione Culturale Il Frantoio.
Il percorso espositivo presenta dodici dittici che la fotografa ha realizzato durante i mesi scorsi, ritraendo uno dei suoi figli: «”Vista da dentro” è il racconto del lockdown attraverso gli occhi di un bambino che, improvvisamente, si è visto privare di tutto ciò che credeva normale. […] Una narrazione che Silvia Sasso ha realizzato usando ancora una volta il rapporto fra oggetto e soggetto, attraverso il linguaggio binario del dittico.
Oggetti in qualche modo simbolo del Covid-19 reinterpretati con il candore, la fragilità ma anche la capacità di immaginazione che solo l’anima giovane di un bambino può avere», hanno spiegato gli organizzatori.
«In realtà non sono passata dalla pubblicità alla fotografia, o comunque non ancora.
Continuo a lavorare in pubblicità, vivendo i ritmi serrati e rispettando le leggi di mercato che questo mondo impone. E forse proprio per questo ho iniziato a fotografare. Grazie alla pubblicità ho avuto la fortuna di lavorare con grandi professionisti: art directors, fotografi e registi mi hanno insegnato a guardare il mondo con attenzione e curiosità e a restituire l’interpretazione dello stesso da un punto di vista più originale, il proprio. Prendere in mano una macchina fotografica e indagare quale fosse la mia visione, è stata più un’urgenza emotiva che una scelta razionale.
Libera dalle logiche del marketing, ho potuto indagare, esplorare e quindi alla fine comunicare un mio messaggio.
Della pubblicità conservo il rigore, la pulizia stilistica e sicuramente la volontà di dar vita a contenuti chiari, sintetici ma allo stesso tempo capaci di evocare emozioni comuni e comprensibili, anche se con una certa originalità».
«Ho iniziato il mio percorso all’Istituto Superiore di Fotografia, partendo dal ritratto e nonostante abbia poi conseguito il Master in fotografia di moda, il legame con la “persona” ha continuato a essere il fulcro della mia ricerca.
Nasco quindi e continuo a essere una ritrattista nel senso che quello che mi interessa è raccontare la persona, conoscerne l’essenza. È in questa direzione, o con questo obiettivo, che ho iniziato a indagare la femminilità.
Ho così dapprima inseguito modalità di rappresentazione del femminile imposte da modelli sociali o culturali, provando a demolirle o comunque a superarle per arrivare ad un archetipo di donna ontologicamente puro.
I ritratti hanno pian piano iniziato a perdere la specificità del singolo, privati di qualsivoglia ancoraggio al reale.
“Ritratte”, la mia prima personale, è proprio la narrazione dell’io femminile in qualunque dimensione spazio temporale.
“Fissata” in qualche modo l’essenza del femminile, ho voluto superarla destrutturandola e scomponendola.
Ho quindi cercato di mettere in comunicazione questo assoluto ontologico svelando relazioni nascoste con elementi esterni, relazioni che si manifestano solo nel momento in cui si crea il legame fra loro.
La prospettiva sul femminile diventa così relazione binaria fra parti umane e parti inanimate come quello fra la schiena di una donna e una foglia di verza o fra il seno e una mela».
«“Vista da dentro” è il racconto del lockdown attraverso gli occhi di un bambino che, improvvisamente, si è visto privato di tutto ciò che credeva normale. Un bambino che ha dovuto imparare a guardare il mondo da lontano e ad aspettare cercando nuovi modi di vivere la propria infanzia; ma sopratutto ha dovuto imparare a riconoscere la sofferenza e ad accettarla, perché sapeva che prima o poi sarebbe passata.
Riproponendo il linguaggio binario del dittico, ho usato da un lato elementi diventati simboli del Covid-19, dall’altro oggetti appartenenti all’universo infantile per associarli, appunto, alle emozioni di un bambino intrappolato con se stesso.
Nove dittici stampati in grandi dimensioni e allestititi insieme come fossero un’unica maxi-affissione di 4×3 metri, fanno esplodere i diversi momenti o tappe che hanno segnato i 40 giorni di chiusura e attesa: dall’identificazione del virus, al bollettino medico della televisione, fino alla speranza in un mondo che seppur malato stava cercando di salvarsi.
La scelta espositiva, per certi aspetti in contrasto con l’intimità delle singole opere, intende gridare il messaggio che deriva solo da una lettura del progetto nella sua interezza: una visione del mondo e del particolare momento storico, proiettata verso il futuro, quindi aperta nonostante la chiusura».
«A fine ottobre, spero, esporrò finalmente a Fondamenta Gallery. È una mostra che era stata programmata a marzo, ma che per ovvi motivi abbiamo dovuto rimandare. Il progetto dal titolo “Proiezioni” rappresenta proprio il passaggio dall’identificazione dell’io femminile alla sua destrutturazione. È un lavoro a cui sono molto legata anche perché il progetto espositivo prevede, appunto, anche una proiezione delle diverse opere esposte con l’obiettivo di negare o quanto meno mettere in dubbio proprio ciò che le singole opere intendono raccontare.
In qualche modo fotograficamente rintraccio delle relazioni all’interno dei singoli dittici che nego attraverso la proiezione. Ma non voglio svelare di più di questo “esperimento” artistico il cui fine ultimo è proprio l’affermazione che ognuno di noi ha una propria visione del mondo: basta trovare lo strumento per raccontarla».
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