Siamo riusciti a vedere la mostra di Gerhard Richter, “Painting After All”, nella settimana della sua inaugurazione, ovvero la prima di marzo, durante i giorni di Armory Show.
Oggi il Met, che il prossimo aprile festeggerà i suoi 150 anni, è chiuso nelle sue tre sedi: il Breuer su Madison, i Cloister a Inwood, e nella sua sede principale, in quell’edificio che è leggenda, su Park Av.
Il covid-19 è arrivato anche nella Grande Mela – o almeno gli Stati Uniti hanno smesso di fare orecchie da mercante – e lo shut down del mondo dell’arte, anche qui, è stato pressoché totale: musei, gallerie, teatri e festival chiusi fino a data da destinarsi.
Del Met (chiuso fino alla metà di maggio), come di mille e uno altri musei del mondo, potrete seguire le attività online, gli approfondimenti, le “visite alle mostre”, ma l’augurio è che quando le porte riapriranno ci si possa gustare ancora per un po’ una selezione magistrale di opere del grande artista tedesco (l’apertura della mostra è prevista fino al 5 luglio).
Al Breuer non aspettatevi una mostra colossale – come quella che era stata, per esempio, quella Jeff Koons – ma due piani di museo votati assolutamente al rigore, nonostante le opere non manchino. E si sa, scandagliare la carriera di Gerhard Richter nella sua vastità e complessità, non è impresa semplice.
Dai ritratti agli astratti, dalle vanitas alle scale cromatiche, dai ritratti fotografici stampati sui giornali ridipinti agli inizi degli anni ’60 alla serie dedicata a Birkenau nata a partire dalle quattro sfocate immagini scattate da una SS ad Auschwitz-Birkenau su cui Georges Didi-Huberman ha costruito il suo saggio Immagini malgrado tutto (2005), ecco che per Richter, la pittura, diventa un “dopo tutto”.
Nato a Dresda nel 1932, scappato dalla Germania Est nel 1961 per studiare arte a Düsseldorf, Richter lo scriveva già a trent’anni: “Il primo impulso verso la pittura, o verso l’arte in generale, deriva dalla necessità di comunicare. Senza questo, tutto il lavoro sarebbe inutile e ingiustificato”. E il suo impulso derivava anche dalla necessità di trovare un’espressione di libertà all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, vissuta da bambino.
E così “Painting After All” si configura come una mostra “libera”, senza seguire un ordine cronologico e selezionando qui e là, da una maggioranza di collezioni private, opere che appartengono a un vero proprio immaginario del contemporaneo.
Al terzo e quarto piano del Met Breuer si scoprono sessant’anni di ricerche portate avanti con rigore e oltre gli schemi – nonostante tutte le avanguardie, nonostante la Pop Art, nonostante il Minimalismo, il Poverismo, e ogni corrente degna di essere definita tale – dal meno tradizionale dei pittori mondiali, conditi da un bel video in cui Richter racconta problemi di rappresentazione e di astrazione, l’esplorazione delle implicazioni materiali, concettuali e storiche della pittura, che si mostrano in oltre cento opere di cui fanno parte anche le installazioni in vetro denominate House of Cards (2020), per la prima volta esposti negli Stati Uniti (così come del resto la serie Birkenau) e che sono vere e proprie sculture-pitture (già esposte nella mostra a Museum Barberini a Potsdam, nei pressi di Berlino, nel 2018) in dialogo perfetto con la luce, l’ambiente e – in questo caso – con l’architettura razionalista di Marcel Breuer e i suoi scorci affilati lanciati sull’Upper East Side.
“After All”. Insomma, dopo tutto questo, dopo questo disgraziato periodo in cui – a causa del virus? – sembrano venire meno anche le libertà più semplici riservate al cittadino, e con esse il fallimento dei sistemi democratici – spalancando così le porte a scenari di ripresa ma anche politici ben poco rassicuranti – chissà se anche la pittura potrà essere la stessa. Chissà se, parafrasando Adorno e la poesia dopo Auschwitz, sarà possibile ancora dipingere il mondo. Almeno questo, dopo tutto.
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