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Napoli a Bergamo: la pittura napoletana del ‘600 all’Accademia Carrara
Opening
Di corsi e ricorsi storici – per rappresentare il cammino dell’umanità che passa dal senso alla fantasia ed alla ragione – teorizzò il filosofo napoletano Giambattista Vico: NAPOLI a BERGAMO si apre oggi, 23 aprile, nove anni dopo (hanno ricordato l’Assessore alla Cultura Nadia Ghisalberti e il General Manager di Fondazione Accademia Carrara Gianpietro Bonaldi) quel 23 aprile 2015 in cui l’Accademia Carrara riapriva al suo pubblico nella veste che oggi conosciamo.
La mostra, a cura di Elena Fumagalli con Nadia Bastogi e la prima della direzione di Martina Bagnoli, è frutto dell’importante intuizione della direttrice: se in apparenza Napoli e Bergamo non hanno nulla in comune, la storia – quella creatrice potremmo dire, secondo la lezione di Vico, che ha per oggetto una realtà creata dall’uomo e quindi più vera e, rispetto alle astrazioni matematiche, concreta – dimostra che alla fine del XVII secolo Bergamo cercò a Napoli gli artisti migliori per decorare i luoghi più sacri della città.
«Questa mostra – spiega Bagnoli – disegna i contorni di un episodio poco studiato della cultura figurativa, portando all’attenzione della critica e del pubblico nuove attribuzioni e nuovi documenti che testimoniano gli scambi proficui tra le due città. In tal senso questa mostra è stata anche una grande occasione di restituzione anche in virtù dei numerosi restauri compiuti per migliorare la leggibilità e lo stato conservativo delle opere sparse sul territorio. Questo è un aspetto molto importante di questa rassegna perché testimonia il radicamento della mostra non solo nelle sue collezioni ma anche nell’eredità culturale del territorio, e dimostra come il museo possa esser un luogo di ricerca e di sviluppo».
È l’eredità del Caravaggio, che soggiornò a Napoli tra il 1606 e il 1610, ad avviare il percorso espositivo nel segno di una dolcezza espressiva che è evidente nelle opere di Giovan Battista Caracciolo, detto Battistello, Massimo Stanzione e Jusepe de Ribera, che rispetto agli altri due abbracciò lo stile caravaggesco traducendolo con un accento analitico. Non distante dal suo ritratto a mezzo busto di Sant’Antonio abate, sulla stessa parete sono mostrati tre dipinti del Maestro degli Annunci ai pastori – Il Vecchio in meditazione con un cartiglio, che allude alla transitorietà della vita e alla vanità dei beni terreni; il Giovane che odora una rosa, possibile allegoria dell’olfatto; e l’Uomo in meditazione davanti a uno specchio, possibile allegoria della vista – nella cui mano gli storici dell’arte riconoscono un potente linguaggio naturalistico derivato della lezione di Caravaggio mediata da Jusepe de Ribera.
Queste opere, come molte di quelle che seguono nella prima fase di mostra, provengono dalla Fondazione Giuseppe e Margaret De Vito. Chi sia stato Giuseppe De Vito, collezionista e studioso di Seicento napoletano e di natura morta, è il Presidente Giancarlo Lo Schiavo a raccontarlo: «Giuseppe De Vito rappresenta un’eccellenza italiana- spiega durante la presentazione – era un imprenditore, di origine napoletana, che ebbe grande successo a Milano nel campo delle telecomunicazioni. Fu eccezionale lo sviluppo della sua personalità: iniziò negli anni ’60 a collezionare arte antica, perché allora non si guardava ancora al moderno o al contemporaneo, in una maniera particolare perché egli, ingegnere di estrazione scientifica, si appassionò talmente al suo modo di collezionare che decise di ricominciare a studiare un periodo ben preciso dell’arte napoletana, quello del Seicento, a cui decise di dedicare, in seguito a un fortunato incontro con l’allora direttore di Capodimonte Raffaello Causa, tutti i suoi sforzi. Egli decise di studiare quell’arte in una maniera tanto approfondita da diventare uno dei più grandi storici del periodo. Avendolo conosciuto e frequentato, mi piace ricordarlo così: lui comprava per studiare e studiava per comprare. Ogni quadro e tutti i quadri, anche qui esposti, venivano acquistati soltanto se potevano rappresentare uno spunto per i suoi studi e interessare le sue ricerche, senza alcun interesse economico».
Cristo e la Samaritana (che si incontrano al pozzo) di Antonio de Bellis, uno dei protagonisti dell’evoluzione della pittura napoletana verso la metà del secolo, che concilia e arricchisce la formazione naturalista influenzata da Ribera – nella cui orbita gravitò Giovanni Ricca (nel Martirio di Sant’Orsola, per esempio dà prova di una ricercata eleganza delle forme) – e dal Maestro degli Annunci, guida il percorso oltre Caravaggio, verso toni di grande raffinatezza ed eleganza sia formale che pittorica: le Nozze mistiche di santa Caterina d’Alessandria di Paolo Fenoglio esibiscono una pittura di grande brillantezza cromatica e sontuosità materica, nel Transito di san Giuseppe di Bernardo Cavallino dense stesure cromatiche e il contrasto chiaroscurale palesano la matrice naturalista. Raffinatezza ed eleganza appartengono a tutte quelle mezze figure femminili, eroine e sante, molto richieste dal collezionismo privato napoletano nel ‘600, di cui sono pervenuti importanti esemplari: nella Giuditta e nella Salomé di Massimo Stanzione, per esempio, alla formazione naturalista si mescolano l’influenza classicismo del bolognese e un’enfasi tutta barocca.
Nella stessa stanza Andrea Vaccaro si ispira a Guido Reni per la sua Sant’Agata, Bernardo Cavallino rappresenta la sua Santa Lucia di tre quarti allargando il primo piano, comprendendo un ampio tendaggio e un tavolo coperto da un drappo, entrambi di un rosso che esalta i toni verde e grigio degli abiti della martire; e Francesco Solimena caratterizza la sua Santa Cecilia con una materia cromaticamente calda e sensuale, memore proprio della tradizione pittorica partenopea seicentesca. La preziosità degli abiti, i larghi panneggi, la teatralità delle pose, sembrano, per conto del percorso curato, tendersi nella sala verso Mattia Preti – con la Scena di carità con tre fanciulli mendicanti, datata anni ’50, ambientata in un contesto urbano e possibile rappresentazione dell’allegoria della Carità e La Deposizione di Cristo dalla Croce, degli anni ‘70 – e Luca Giordano che traghettano, di fatto, il percorso verso il Barocco. La Scena d’osteria di Giordano guarda alla grafica nordica mentre il successivo Riposo della Sacra Famiglia evidenzia la definizione – negli anni ’70 – di un preciso stile: la composizione rinvia a esempi di Raffaello e della sua scuola, studiati negli anni giovanili, e agli artisti veneti per l’immersione delle figure nell’ambiente naturale. I personaggi si corrispondono con misurata simmetria e l loro sguardi rivelano una complicità familiare.
Giordano è il ponte di collegamento con la seconda parte della mostra, dedicata alla presenza di artisti napoletani in terra bergamasca. Lui stesso dipinse, nel 1681 e su commissione del Consorzio della Misericordia Maggiore di Bergamo (MIA) tramite il mercante veneziano Simone Giogalli, una grande tela raffigurante il Passaggio del Mar Rosso, destinata alla parete di fondo della basilica di Santa Maria Maggiore in Città Alta. La preziosa collaborazione con il territorio consente l’esposizione del Sant’Andrea deposto dalla croce, del Martirio di san Bartolomeo, della Lapidazione di san Paolo e della Crocifissione di san Pietro, tutti risalenti al periodo tra il 1660 e il 1665 e tutti provenienti dalla Chiesa di Sant’Evasio Vescovo e Martire di Perdendo.
La mediazione di Giogalli, sintomatica del ruolo determinante che gli scambi commerciali, sociali e culturali con Venezia, hanno avuto sul patrimonio di pittura napoletana a Bergamo – proprio a Venezia, Giordano, dipinse una Discesa di Cristo dalla croce per il bergamasco Giovanni Battista Zanardi – fu determinante anche per l’arrivo a Bergamo di Nicola Malinconico, a cui è dedicata la sala finale del percorso, dove si ricostruisce la sua attività sul territorio presentando inedite pale rintracciate nelle chiese della bergamasca insieme a prestiti dalla Pinacoteca di Brera e dal Museo Gaetano Filangieri di Napoli.
Giunti alla fine di NAPOLI a BERGAMO la sensazione è quella di aver attraversato un piccolo frammento di vita – che le opere racchiudono e raccontano – un legame fatto, anche, di mille pensieri, emozioni e, perché no, sogni, tutti da scoprire, da esplorare e da approfondire lungo un percorso per niente scontato. Anzi, appassionante e sorprendente.