«L’intenzione è quella di lavorare con pochi e selezionati nomi su cui si è deciso di investire, innescando percorsi a lungo termine con artisti affermati ed emergenti, valorizzando gli autori e producendo lavori ad hoc specificamente concepiti per noi.» – Spiega Hélène Dubois fondatrice dello spazio insieme a Patrice Dumand.
L’obiettivo è quello di riempire un vuoto, raccontare una parte di mondo, non solo attraverso la distinzione superata tra Arte & Design. La linea adottata deriva dalle suggestioni trovate nell’elogio dell’ombra di Tanizaki Jun’ichiro, dove l’autore scrive: «Lasciamo che le tenebre c’inghiottano, e scopriamo in loro una beltà». Un approccio che ha orientato il modus operandi di IN’EI, che significa appunto Ombra. In primis l’attenta scelta dei curatori, chiamati a porre particolare attenzione ad ogni aspetto funzionale nella valorizzazione dei diversi universi artistici rappresentati. Sono percorsi a lungo termine con pochi e selezionati nomi, come nel caso di Gao Bo, che ritorna sulla scena dell’arte internazionale dopo una lunga pausa, quasi come una rinascita.
Una Galleria che porta una ventata di novità a Venezia, con i suoi spazi affacciati sul Canal Grande, sviluppa un legame forte tra la laguna e la serie di opere esposte. Una connessione, quella con l’Asia Orientale, che non poteva che materializzarsi a Venezia, luogo che è da sempre una finestra sull’Oriente. La scelta della città lagunare è nata dalla volontà di creare un percorso a lungo termine in un luogo che per i galleristi rappresenta la bellezza e la creatività; la quintessenza della fusione tra il lavoro manuale dell’artigiano e quello dell’artista.
Il Tibet è stata la prima fonte di ispirazione per Gao Bo, alla costante ricerca di qualcosa di diverso, di una nuova cultura, nuove ispirazioni che non trovava più nella provincia di Sichuan in Cina dove è nato. Erano però altri tempi, segnati dall’impossibilità di uscire dal paese. Ed ecco che iniziano i suoi viaggi in Tibet, un luogo, che pur restando nei confini della Cina, presenta una cultura del tutto diversa, una grande ispirazione per le sue opere. Una terra non familiare all’artista, in cui scopre che il mondo non è affatto quello che gli era stato insegnato.
Essere straniero al centro della Cina.
Viaggi che continuano per più di 30 anni, anche dopo essersi trasferito in Francia dal 1990, dove vive attualmente. Una scoperta incessante di creazione e distruzione, un moto di sperimentazione che porta ad una ricerca formale su nuove tecniche. Fotografia, installazioni, performance, supporti diversi che veicolano lo stessa carica devozionale e spirituale che Gao Bo è in grado di trasmettere.
L’artista abita un margine, quello tra il visibile e l’invisibile, tra il manifestarsi dell’immagine e la sua opacizzazione, tra la cancellazione e il ritorno alla luce e allo sguardo dell’osservatore.
Luoghi, ispirazioni, culture differenti. È importante però evidenziare un’unità, quella che lega insieme le sue opere «Come se fossero parte di un unico grande e articolato lavoro, composto con voci, immagini e materiali di volta in volta tratti da un vasto archivio. Un autoritratto, lo ha definito Gao Bo. Trasversale allo spazio e incurante del tempo.»
Venezia e il Tibet si legano nell’opera principale della mostra, che ha dato vita al progetto. Mandala offering, Tibet, non è solo un’installazione, non solo una serie di ritratti o una montagna di mille pietre. L’opera è tutto questo ma anche molto di più. È una riflessione sulla vita, sulla morte, sulla memoria e sulla relatività del tempo. Un legame, quello di Gao Bo con la cultura tibetana, profondo e sentimentale.
Un’opera realizzata nel 2012 e oggi reinterpretata, sono mille ritratti fotografici impressi su pietre ispirate a quelle marniy, elemento devozionale della spiritualità buddista tibetana. Donne e uomini, giovani e anziani sono seguiti da una serie di numeri che rimandano alla disumana pratica della numerazione dei prigionieri, quell’atto di spersonalizzazione praticato da tutti i regimi.
C’è solo una condizione per la vendita dell’opera. Dopo l’acquisto deve essere riportata in Tibet e dispersa nella sua terra, una sorta di “liberazione” ripresa in un documentario girato dall’artista insieme al collezionista, solo in quel momento l’opera completerà il suo viaggio e si aprirà una nuova fase per Gao Bo.
«Gao Bo compie una serie di violazioni dei codici e mette in discussione le narrazioni del potere. Ma ogni volta questo accade nello spazio di un’eccezione: quello dell’arte che, implica il sacro e l’intangibile e che grazie a questa dimensione può manifestarsi indifferente alle regole imposte.»
Un unico grande e articolato lavoro, che va a formare un vasto archivio. Trasversale allo spazio e incurante del tempo. Ed ecco che lo scrivere dimostra la sua importanza all’interno dei suoi lavori, diventando un ulteriore atto di testimonianza e resistenza. L’artista inventa la sua scrittura, una lingua liberata, che si manifesta solo nel segno grafico, «Invece di essere funzionale ad amministrare norme, regole, divieti, concessioni, nega tutto questo e, in questa liberazione, invita ogni osservatore a un esercizio di riflessione interiore: perché solo lui è responsabile della lettura che compirà.».
Un esercizio, quello della scrittura che attraversa tutta la sua vicenda artistica, diventando fondamentale nel dialogo che intrattiene con il Tibet, con i suoi abitanti e i loro volti, le loro storie e le loro iconografie antiche e recenti.
Due mondi dialogano costantemente nelle opere di Gao Bo, intrise di storie, ricerca, culture, sentimenti forti e talvolta contrastanti che propongono un interessante spunto di ricerca al suo spettatore.
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