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Lessico Americano: traccia della storia del nostro paese ed espressione della storia personale di Flavio Favelli
Opening
Francobolli d’epoca, carte di cioccolatini, involucri vintage di chewing-gum e scatole di latta: Lessico Americano di Flavio Favelli, che inaugura oggi (fino al 10 settembre) nella sede a Cortina di Farsettiarte, è un insieme di segni, immagini, prodotti e oggetti di uso passato, riconducibili, come suggerisce il titolo della mostra, a un possibile e perturbante “lessico americano”, inteso come linguaggio e immaginario della tanto familiare quanto oscura seduzione.
Negli spazi dell’ex funivia Belvedere Pocol, recuperati dalla Famiglia Farsetti, collage e assemblaggi, compressioni di oggetti silver plated e lattine adombrate da sfumature di colori spray delineano un suggestivo percorso nella fantasia della realtà del consumo in un rimando continuo di aneddoti, ricordi, fascinazioni e ossessioni che oltre a esprimere la storia del nostro paese e l’impatto che il mondo americano ha avuto su di essa, sono anche traccia di una storia personale, che Flavio Favelli ci ha raccontato.
C’è un’affermazione da cui vorrei partire: «Lessico Americano delinea un percorso nell’immaginario della realtà del consumo». Mi viene in mente Imaginary economics, di Olav Velthuis, in cui l’arte diventa un’inconsueta fonte di sapere sull’economia di mercato. Come si pongono queste opere, e in generale la sua ricerca, rispetto al sistema del consumo?
«L’arte è legata al potere, al capitale, che nel tempo moderno si è intrecciata indissolubilmente alla società dei consumi. Il consumo siamo noi. Senza il consumo non ci sarebbe la civiltà occidentale e l’arte. Certo molto consumo è una cazzata, ma lo è anche molta parte della nostra cara civiltà. Così come diventa non proprio semplice tracciare un confine fra la parte buona e la parte cattiva di questa, lo è anche per il consumo. Siamo critici del consumo solo perché siamo consumatori, siamo ecologisti perché per esserlo abbiamo dovuto domare la Natura con le sue leggi di merda (e se non la domavamo a quest’ora non eravamo qui), siamo anticapitalisti perché abbiamo capito, dopo secoli di capitalismo, che il desiderio non è proprio tutto. Ma solo il consumismo e il capitalismo danno la felicità all’essere umano e l’opera d’arte è un bel condensato (da asporto) di tutto questo. Come quando si prende una bella sbronza, solo dopo ci si accorge che si poteva bere di meno, oppure acqua tonica. O acqua brillante?»
Il consumo ha cambiato le nostre vite, le nostre abitudini e il nostro modo di relazionarci con gli altri, mutando il nostro lessico, inteso anche come immaginario, quotidiano. Quanto ha inciso nella sua storia personale e come ha tradotto, nella sua pratica, questa incidenza?
«In Italia inaugurò la lunga marcia del turismo culturale di massa la mostra di Mantegna a Mantova nel 1961. I consumi e l’industria culturale ballano insieme da tanto tempo. Un paese che si è relazionato ai prodotti con Carosello, può avere una storia non ambigua? Se Silvio Berlusconi, come sono costretti a dire tutti, fa parte della storia dell’Italia, la storia recente d’Italia è una storia del consumo. Mio nonno Carlo, gran bell’uomo, elegante e anticomunista (tutti in fondo siamo anticomunisti, chi metterebbe in comune, considerando gli italiani, i propri beni?), nel senso di essere contro il PCI, amante della tradizione, come dicono di essere tutti i conservatori, si fece fottere da tutto quello che gli vomitò addosso la TV negli ultimi vent’anni della sua vita. Cosa perdi fratello se non mangi fiorello sono fra le sue parole che ricordo. Questa è la storia della borghesia italiana. Emanuele Trevi ha scritto che tento di dare “forma al tempo”. Che mi sa che è il tempo del consumo».
Francesco Guzzetti nel testo critico che accompagna Lessico Americano parla della bellezza dell’Unheimliche. Dal rimando concettuale al fascino del perturbante, visivamente – come anche in termini di esperienza – ci troviamo di fronte a opere che sono autobiografiche e insieme collettive. In che modo riesce a coniugare seduzione, inconscio, cultura e realtà? Che valore hanno per lei queste quattro matrici e a che forma, o sintesi, arriva, mettendole in dialogo?
«Se penso alla storia tragica della mia famiglia penso a dei momenti, a delle immagini e in queste appaiono le marche, i loghi, le scritte e i prodotti perché erano consustanziali al tempo, ma anche perché mi raccomandavo a loro. Erano come dei diorami, come le scene della Chanson de Roland: i miei nonni e mia madre a tavola che parlavano di mio padre, nel villino estivo, le tensioni, le discussioni erano guarnite dalla spirale del cacao Perugina o dai disegni gialli dell’Idrolitina del cavalier Gazzoni, famiglia insipida, divenne poi presidente del Bologna Football Club, ma lo fregarono; fece anche le Dietorelle, un po’ cancerogene, che mangiavano le ragazze magre per rimanere magre. A volte queste scenette della mia famiglia rimangono per un po’ e poi svaniscono come le strisce luminose dei neon che scompaiono nel cielo dopo averli fissati, svaniscono i volti dei miei genitori, i grandi mostri della mia vita, ma rimangono le vesti dei prodotti, che mi fanno compagnia, che la mia mente ha serbato perché mi aiutavano a distrarmi, a tirare avanti, appigli coi colori suadenti e le parole dolci e brillanti degli slogan, i pensierini del nostro tempo».
C’è qualche aneddoto o fascinazione particolare che la lega alle opere in mostra?
«Nell’opera Nickel Silver, fra i tanti oggetti “squizzati”, c’è una brocca martellata d’argento 800. Fu un regalo a mia madre del suo secondo marito, un cattolico conservatore con conto private di Unicredit. C’è da specificare che si sposarono, per volere di lui, solo in chiesa e non per lo stato, cosa possibile, perché lui vedovo e mia madre con il matrimonio, con mio padre, annullato dalla Sacra Rota. Uno di quelli che decidono di passare una parte della loro vita ad avercela coi comunisti e con gli atei. Al funerale di mia madre eravamo io e lui in prima fila, in chiesa, davanti alla cassa. All’uscita mi chiese di riavere i regali che aveva fatto a mia madre e quella brocca, a cui teneva tanto».
Da un punto di vista formale come ha realizzato le opere che costruiscono Lessico Americano? E come possono essere inquadrate in termini storico-artistici?
«Sono assemblaggi, composizioni, collage. Una coppia in cornice, altri su pannello. Ho privilegiato la forma quadrata, direi più moderna, seriale, mi sembra dia il meglio con questi materiali e forse, con qualche presunzione, prende un po’ le distanze da tutti i grandi quadri della storia dell’arte del Passato che non sono quadrati. I colori sono intensi, sono verniciacce d’industria che terrebbero botta anche in mare e al sole. Inchiostri e smalti tenaci che coprono i francobolli, le scatole di latta e lattine, le carte delle Brooklyn e dei cioccolatini. Per l’ultima domanda direi che non mi riguarda, non ho nessun conto in sospeso col dio (o Moloch?) della storia dell’arte; non mi mangia, ma nemmeno mi salva, al contrario delle mie opere».
Semanticamente, invece, quali sono i termini da cui è partito a costruire Lessico Americano?
«Il titolo è venuto dopo. Semplicemente ho continuato a fare una serie di opere con i materiali di questi ultimi anni e mi sono accorto della questione americana. Sono materiali siglati, numerati, nominati, serializzati, progettati, lontani anni luce da quelli un po’ nobili come marmo, bronzo, ecc. o quelli più naturali, che, con senso di colpa, ci ricordano che siamo nell’Antropocene. Questa marea colorata e inquinante che seduce e condanna è tanto bella quanto dannatamente ambigua. E il cuore pulsante di questa roba sta oltre le Colonne d’Ercole, un cordone ombelicale mai reciso. Questa roba è il corredo dei piccoli dei del nostro pantheon a cui nessuno può sfuggire; questa roba del resto è quello che abbiamo fatto dal giorno dalla cacciata dal Paradiso Terrestre in poi».