«Sulle origini del nome esistono ricordi diversi: “Mo’dinna mo’dinna”, avrebbe urlato un cuoco cinese mentre serviva la cena agli abitanti di una piccola cittadina del West americano nata a fine Ottocento lungo la Pacific Railroad, in mezzo al deserto che divide lo stato dello Utah da quello Nevada. Altre fonti fanno risalire invece il nome a un operaio, forse di provenienza emiliana, che sempre al termine del XIX secolo, in preda a una forte nostalgia, avrebbe nominato il cantiere ferroviario in cui lavorava con il nome della sua città natale, Modena», scrive in un suo testo Antonio Rovaldi.
Era il 2016, lo stesso anno in cui, su invito del festival Fotografia Europea, Rovaldi riflette un’esplorazione del paesaggio emiliano lungo la via Emilia, nella tratta che va da Parma (città natale dell’artista) a Modena. Trovandosi in quel periodo a vivere negli Stati Uniti, Rovaldi decide di dare inizio alle sue verifiche geografiche a cominciare dalla Modena americana per poi, una volta rientrato in Italia, arrivare alla destinazione del suo viaggio nella Modena emiliana. Nasce così un viaggio dentro due geografie distanti nel tempo e nello spazio.
Scrive ancora Rovaldi: «Con l’avvento della ferrovia nella contea di Iron (Iron County), nel dicembre del 1899 il signor Mr. Brigham J. Lund avviò a Modena con alcuni soci una piccola attività: trasportare merci a St. George (Utah), Pioche e Delamar (Nevada). Nel 1903 Lund ruppe i rapporti con i suoi collaboratori e fondò la B.J. Lund & Company. Il suo nome, ancora oggi, compare su alcuni dei pochi e pericolanti edifici della piccola città. Oggi Modena (dagli abitanti pronunciato Modeenah) è quasi una ghost town, se non fosse per le cinque famiglie rimaste. C’è ancora un post office, una rugginosa pompa di benzina ‒ no service available ‒ e l’unico edificio in pietra ancora in piedi ospita la vecchia scuola dove insegnava la maestra Edna Thorley».
E prosegue: «A Modena oggi non ci sono più bambini e la signora Thorley (novant’anni) trascorre il suo tempo riempiendo grossi quaderni di ritagli con memorie del passato. Vincent Rice (pompiere psicanalista) e sua moglie hanno acquistato l’edificio qualche anno fa. Purtroppo non sono riusciti a coinvolgere nelle attività ricreative gli undici abitanti della città di Modena ‒ benché in un’aula sia rimasta una piccola batteria acustica e una vecchia stufa elettrica. Vincent è rassegnato perché l’unico dei suoi concittadini con cui aveva stretto amicizia non esce più di casa poiché non sopporta il rumore. Modena è circondata dal deserto e avvolta nel silenzio. Gli unici suoni che disturbano il suo sonno sono l’abbaiare dei cani di Vincent e i lunghi treni merci che arrivano dal Nevada e passano senza fermarsi alla stazione. Cedar City, la città più vicina, dista cinquanta miglia».
Quale che sia la vera storia poco importa, Rovaldi ha trovato su una mappa americana questo pezzo di via Emilia ‒ che all’oggi ha l’aspetto di una Ghost-Town ‒ ha visitato e attraversato fisicamente i luoghi a distanza di tempo e ne ha raccontato la storia, in una sorta di contrappunto tra la sua condizione di emiliano ‘espatriato’ e quella degli abitanti ed eredi di una città il cui nome si è modificato nel tempo, e soprattutto con un suggerimento, che non è solo quello della documentazione fotografica pura, piuttosto quello della vicinanza e dell’incontro con l’incerto e l’inaspettato e l’immagine restituita nella forma di una sequenza fotografica suggerisce la possibilità di rilettura di una geografia, elastica e connettiva. Le 60 fotografie in bianco e nero di MO’DINNA MO’DINNA (I wanna go back home), sono infatti composte in una rigorosa sequenza fotografica in dialogo con una registrazione sonora, e raccontano queste e altre storie possibili di due geografie lontane, del loro passato e del loro presente, con uno sguardo che è certo rivolto all’interiorità e ad un percorso di pensieri e percezioni, ma che non si sottrae alla verifica con la realtà attraverso la propria presenza fisica sul luogo.
In mostra negli spazi di Metronom il lavoro completo, accompagnato da un video book ‒ The Sound of The Woodpecker Bill: New York City (Video Digitale, bianco e nero, 14’29”, 2023) ‒ che completa la mostra e l’approfondimento della pratica di Rovaldi, il quale al linguaggio video ha dedicato un ampio spazio all’interno della sua pratica.
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