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Mentre la settimana scorsa si è inaugurata alla Triennale di Milano la mostra – curata dal neo direttore della GAMeC di Bergamo, Lorenzo Giusti – “Abbandonando un’era che abbiamo trovato invivibile” dedicata all’incontro tra l’artista georgiana Thea Djordjadze (Tbilisi, 1971) e l’opera di Fausto Melotti (Rovereto, 1901 – Milano, 1986), oggi sarà la volta di Carlo Ramous, sotto la curatela di Fulvio Irace e Luca Pietro Nicoletti.
Chi era Ramous? Milanese, scomparso nel 2003, “Protagonista dimenticato della scultura italiana del secondo Novecento che ha attraversato in pieno le fasi cruciali dell’arte moderna approdando, all’inizio degli anni Settanta, alla dimensione dell’opera d’arte ambientale”, si legge nella presentazione.
E in effetti, guardando alla sua produzione, è facile imbattersi in qualche “confronto” con altri grandi Maestri della scultura: un po’ Mark Di Suvero forse, un po’ Calder – per quanto riguarda le opere ambientali – certamente con meno leggerezza, e con una solida base ancorata a terra.
Un’operazione di ripescaggio di cui hanno fatto parte, in precedenza, una serie di recuperi e restauri di pezzi ambientali, che in parte furono collocati a partire dalla seconda metà degli anni ’50, in diversi spazi pubblici di Milano. In città, ancora, potete vedere il “Monumento ai caduti dell’Isola” in Piazzale Segrino o il “Gesto per la Libertà” in Piazza della Conciliazione, che nel 1974 era stata esposta insieme ad altre opere di grandi dimensioni in Piazzetta Reale, con il semplice nome “Gesto”. Poi, si sa come vanno certe cose, capitò anche che a Parma – in occasione di una mostra mai realizzata nel 1974 – una serie di grandi sculture vennero lasciate smontate, in un appezzamento all’aperto, subendo le intemperie e diversi danneggiamenti, per quasi quarant’anni. Nel 2012 tre di loro vennero recuperate e restaurate. Oggi le sue forme geometriche “che si articolano nello spazio con ardito calcolo degli equilibri”, tornano in scena.
Aprendo così il terzo dialogo ideale, su scale molto diverse, con la voce di Djordjadze che guarda ai piccoli Teatrini di Melotti costruendo opere site specific con oggetti d’uso comune deprivati di ogni possibile funzione, o materiali poveri. Se da un lato dunque c’è l’attenzione per il teatro in chiave “minima”, e un anti-monumento, dall’altra si dà la spalla al gigantismo, e alla sua messa in scena. Luoghi differenti, per un copione drammaturgico su registri alterni. (MB)