Attingendo alle teorie queer, femministe e psicoanalitiche sul rapporto, carico di grande intensità e simbolicamente ricco, tra madri e figli, la mostra Motherboy riflette in modo esteso sulla categoria del mammone, esaminando le variazioni di questo legame attraverso diverse configurazioni di genere, etnia e cultura e offre un punto di accesso a questioni fondamentali dei rapporti umani, come l’amore, il potere e l’asimmetria.
Accompagnata da un saggio di Asa Seresin, la mostra (visitabile da Gió Marconi fino al prossimo febbraio) proietta uno scenario ampio, oltre le identità nazionali, articolandosi in diverse atmosfere sui tre piani della galleria con le opere di Sophia Al Maria, Patrizio Di Massimo, Bracha L. Ettinger, Hadi Fallahpishi, Jes Fan, Apostolos Georgiou, Allison Katz, Leigh Ledare, Jonathan Lyndon Chase, Gaetano Pesce, Maia Ruth Lee, Jenna Sutela, Gray Wielebinski, Kandis Williams e Bruno Zhu.
Del dialogo con l’artista Gray Wielebinski, che è all’origine di Motherboy, della mostra e della riflessione sugli aspetti terribili, teneri e comici del rapporto madre-figlio come specchio sia dell’associazione che della dissociazione, affrontandone le ricadute sull’immaginario sociale collettivo, ne parliamo con la curatrice Stella Bottai.
Dal 1952, quando Corrado Alvaro coniò, per primo, il termine, il concetto di mammone è in gran parte filtrato anche nella società e nella cultura moderna. Nel suo confronto con Gray Wielebinski, come avete celebrato, criticato e riconfigurato questa figura?
«Il dialogo con Gray è nato nel corso del 2022. Tra studio visit e partite di tennis nei campi comunali di Hackney a Londra, ci siamo spesso trovati a parlare di esperienze personali. Direi che più che “filtrato”, il concetto di mammone in Italia è una vera e propria matrice di comportamento legato a una dimensione patriarcale. Quando è nato mio figlio, ho iniziato a riflettere su questa nozione chiedendomi se la mia esperienza da genitore potesse aiutarmi a creare dimensioni alternative associabili a una parola storicamente così stigmatizzata e stigmatizzante. Gray è un uomo trans e una volta mi raccontò di come, crescendo, si sentisse un vero e proprio mummy’s boy. Questi pensieri preliminari hanno dato inizio al progetto espositivo Motherboy come tentativo di costruire una dimensione mammona in cui ci potessimo identificare anche noi. La mostra è accompagnata da un saggio di Asa Seresin che approfondisce il tema tra diversi strati della storia e della filosofia contemporanee, e della cultura mediatica tra televisione e TikTok».
Mi ha colpito questo passaggio: «Nel complesso, la mostra mette in scena una riflessione sugli aspetti terribili, teneri e comici del rapporto madre-figlio come specchio sia dell’associazione che della dissociazione». La mia attenzione è andata sullo specchio che, riprendendo la teoria Lacaniana, rappresenta un momento fondamentale della formazione e dello sviluppo della psiche del bambino. Come si traduce, a livello visivo ed esperienziale, l’azione specchiante di Motherboy?
«Abbiamo lavorato in stretto dialogo con Francesco Valtolina per sviluppare una immagine grafica per la mostra che fosse in linea con i cardini ideologici ed estetici che guidano il progetto. L’immagine portante vede il titolo Motherboy sovraimpresso a uno sfondo grigio metallizzato riflettente in cui, volutamente, echeggia l’idea di specchio: questo è infatti, come lei indica, un elemento fondamentale nella costruzione dell’identità infantile. È anche un simbolo di narcisismo e di una visione del mondo incentrata su di sé, caratteri propri del patriarcato. Lo specchio potrebbe far pensare a un senso di simmetria, tuttavia Motherboy esplora aspetti asimmetrici dei rapporti familiari, e si interroga su come si possano colmare distanza con rovesciamenti e moti contrari. Si prenda ad esempio il lavoro di Bruno Zhu: un Patek Philippe gigante a inizio mostra, le cui lancette si muovono in senso antiorario portandoci indietro nel tempo».
Quanto è intervenuta l’anima degli artisti coinvolti e come hanno messo in gioco il loro sistema affettivo?
«Abbiamo attivato un dialogo profondo con tutti i partecipanti. Decidendo di lavorare al progetto con relativa lentezza, in oltre 18 mesi, abbiamo potuto dare tempo a tutte le idee e valutare con ogni artista il miglior approccio in mostra. Talvolta le biografie personali entrano direttamente in gioco – si vedano le opere di Sophia Al Maria e Maia Ruth Lee, in cui le identità culturali miste di queste due artiste vengono richiamate attraverso la fusione di mondi plurimi nei rispettivi collage e sculture. In altri casi, i lavori contribuiscono a creare strumenti di rappresentazione di concetti e atteggiamenti che la mostra cerca di mettere in dialogo. Per molti dei partecipanti, oltre ad essere la prima volta che il proprio lavoro viene esposto in Italia, è anche la prima volta in cui si trovano accostati nel contesto di uno stesso progetto espositivo – tra queste associazioni inedite, la sala che ospita un dipinto di Allison Katz, una sedia-scultura di Gaetano Pesce, una scultura di Hadi Falapishi e una piccola tela di Patrizio Di Massimo che raffigura Carlo d’Inghilterra che piange».
Sacrificio, co-dipendenza, desiderio, identità, negazione, gerarchie, possessività, tradimento: come gli artisti hanno trasposto, visivamente, le gerarchie interpersonali e il linguaggio emotivo?
«Il collage di Kandis Wiliams è esplicitamente interessato alla dominazione patriarcale fascista sul corpo della donna madre e sorella, il titolo dell’opera ripete un passaggio dal libro di Klaus Theweleit del 1987 intitolato Male Fantasies:
Mothers and sisters seem here to have been revealed as the true love objects of these men. The words of the incest taboo have written “the water is wide, and they cannot get across.” We now also have a way of understanding why “good” women have to be husband-less, why they have to be pale as death. It is their very suffering, their attitude of sacrifice, the traces of self denial on their faces, that give them their deathlike beauty. Why? Because the sons/brothers want it that way. They may produce one Red outrage after another as pretexts, but it’s clear enough that they are the ones who want to see the “mask” on these women. The mothers/sisters are called upon to demonstrate that they, too, are consumed by suffering because they are unable to fall into the tender embrace of the sons/brothers. This is the only embrace that the sons/brothers believe the women really want. In short, it is the sons’ merciless jealousy that has the husbands killed off (by the “Reds”) and makes martyred angels of the mothers and sisters.
Nella stessa sala, i dipinti e lavori su carta di Bracha L. Ettinger danno forma visiva al pensiero filosofico e psicoanalitico di questa teorica che ha coniato il concetto di “matrixial”. L’affetto è chiave fondamentale per accedere alla dimensione familiare delle opere di Leigh Ledare, di cui è protagonista la sua stessa madre: ex-ballerina del New York City Ballet, la documentazione dei suoi atteggiamenti tra le mura di casa testano i parametri del giudizio morale».
Spogliandosi e rivestendosi delle molte convenzioni che regolano il rapporto madre-fligli, dove finisce l’autobiografia e dove inizia la collettività? Quale valore aggiunge Motherboy alle configurazioni di genere e cultura e come si inserisce, sul piano della critica, nel dibattito contemporaneo?
«Opere come quella di Jenna Sutela ci ricordano che siamo parte di sistemi di co-dipendenza in cui individuo e collettività si influenzano reciprocamente senza perdita di continuità. Partecipanti come Sutela e Jes Fan lavorano da tempo con materiali organici e bio-chimici quali batteri, cellule di laboratorio e melanina, aprendosi al dibattito contemporaneo sul rapporto tra forme di vita umane e non-umane e la possibilità di comprendere la nostra esistenza non come individui isolati ma interconnessi e interdipendenti. Se da un lato la pittura di Apostolos Georgiou si concentra sulle crisi quotidiane di un uomo bianco – presumibilmente eterosessuale – di mezza età, Jonathan Lyndon Chase crea una cucina celebrativa dell’identità queer e Black, uno spazio che sottrae il mammismo da visioni rigide e binarie di genere».
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