Una riverenza per la sensualità e il tatto, un senso di rispetto per i tessuti e la carta e un’ossessione per la ripetizione e il quotidiano: Isabella Ducrot debutta nella galleria newyorkese Petzel con la mostra No Words, che dona un momento di comunione con la terra e con i nostri corpi.
Al centro dell’esposizione c’è una nuova serie di opere su carta che, come evoluzione delle serie Flowerpot e Tendernesses, sviluppano i cardini della sua ricerca. In Flowerpot morbidi pigmenti riempiono vasi arrotondati, incorniciati da confini metallici, increspati da luci e ombre come un terreno montuoso. Interessata alla ceramica e alle arti decorative, Ducrot presenta uno studio di volume, colore e consistenza, attraverso pastelli polverosi e steli vaporosi, che si protendono come braccia aperte.
Le sue Tenderness offrono invece ritratti lirici di intimità , con i soggetti avvolti in tessuti a pois e nei loro stessi corpi. Sotto lune incandescenti e aloni dorati a spillo, i soggetti avvolti nel bozzolo di Ducrot si accartocciano sotto le loro tenerezze condivise, come la carta che dà loro pelle e respiro si accartoccia davanti allo spettatore. Ducrot ha scelto carte leggere e semitrasparenti. Durevoli ma delicati questi fogli (storicamente utilizzati anche per conservare manoscritti medievali) sono simili alla tela e fungono da base per le immagini. «Non posso essere indifferente alla carta: mi dà metà del lavoro», racconta l’artista che mette in primo piano il materiale, rivelandone la natura e il contenuto e permettendogli di diventare parte dell’immagine.
Nata nel 1931 a Napoli e residente a Roma, Ducrot ha iniziato la sua carriera artistica avvicinandosi alle opere con una venerazione per il tatto e la materia. Lavorando con carte antiche provenienti da oltre quattro continenti – dal Sud America alla Cina e al Giappone, passando per la Francia, la Tunisia, il Marocco, l’India, il Pakistan e il Tibet, datate dal IX al XX secolo – le sue composizioni nascono da questo contatto primario con le fibre.
La nuova mostra non offre solo una meditazione sulla possibilità del tatto, ma anche sul silenzio della logica di fronte alle immagini, in particolare a quella della bellezza, come rifugio dal dolore, dalla disperazione e dall’orrore. «La terra è malata, la natura è malata – dice Ducrot – abbiamo paura e facciamo quello che possiamo fare, non per l’eternità , ma per oggi, finché l’oggi è generoso con noi». Celebrando i materiali grezzi e flessibili da cui creiamo le immagini, le superfici luminose di Ducrot invocano la trasformazione e la rigenerazione.
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