Immaginate un uomo dallo sguardo schivo, impenetrabile, camuffato da turista, entrare in un cinema di seconda categoria dell’East Village, a New York. È il 1978. Non ha in mano l’immancabile secchiello ricolmo di pop-corn fumanti al burro fuso. Ma un oggetto ingombrante, a tratti irregolare, che non passa inosservato. Questo insolito avventore freme per utilizzarlo non appena saranno spente le luci. Con la complicità del buio. E così accade. Inizia il film e subito aziona l’otturatore di quella che è una fotocamera di grande formato, con il diaframma alla massima apertura. Due ore dopo, alla fine del film, chiude l’otturatore. E torna dritto a casa. La sera stessa sviluppa la pellicola. La sua vita nelle ultime ore, la sua visione al cinema è adesso proprio lì, di fronte ai suoi occhi. Un solo rettangolo luminoso, cioè un intero film (e un frammento di esistenza) in un singolo fotogramma.
È Hiroshi Sugimoto, destinato a diventare uno dei più autorevoli interpreti della fotografia contemporanea internazionale. E quel singolo fotogramma è l’opera prima votata a inaugurare la longeva e fortunata serie dei Theaters, composta da foto scattate con il procedimento appena descritto all’interno di teatri americani degli anni Venti e Trenta convertiti in sale cinematografiche. Da allora Sugimoto di strada ne ha fatta. Come la sua serie che, dai teatri americani di inizi Novecento, è passata per i mitici drive-in degli anni Cinquanta, spostando infine il proprio interesse, in tempi più recenti, ai teatri italiani. Non sorprende, quindi, che la sua personale che si inaugura oggi a Torino, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, dal titolo “Le notti bianche” presenti il Teatro dei Rinnovati e il Teatro dei Rozzi di Siena, il Teatro Scientifico del Bibiena di Mantova, il Teatro Comunale di Ferrara, il Teatro Olimpico di Vicenza, il Teatro Goldoni di Bagnacavallo e l’elenco prosegue fino al Teatro Carignano del capoluogo sabaudo. Si tratta di venti opere fotografiche che, per la prima volta, rivelano oltre allo schermo illuminato anche la platea e la galleria del teatro dove è stata organizzata la ripresa fotografica. E l’indagine dell’artista torna a concentrarsi sempre più implacabilmente sul concetto del tempo, sul suo scorrere inesorabile, sulla percezione che di esso ha ognuno di noi. Perché in quel grande teatro che è la vita siamo tutti combattuti in ogni momento fra il desiderio di bloccarne l’avanzata, o almeno di riuscire a trattenerne un’istantanea, e il desiderio pressante di eternità. Sempre a patto che esista. (CBS)