Pensata, e realizzata, proprio per il Binario 1 delle OGR, RHAMESJAFACOSEYJAFADRAYTON ha sicuramente un titolo particolare. Difficile, forse impossibile, pronunciarla come un’unica parola: sono infatti i nomi di tre muscisti neri, chitarristi, Arthur Rahmes, Pete Cosey, Ronny Drayton, intervallati dal nome di Jafa.
La ricerca di Arthur Jafa, focalizzata sulla Blank culture, intensa e complessa, si articola negli spazi torinesi con due opere, una video, l’altra installativa, entrambe di larga scala. Un vero e proprio percorso è Ka-ba-ka-la, installazione di carte da parati e stampe selezionate dalle immagini tratte dai Picture Books, che l’artista ha iniziato a raccogliere a metà degli anni Ottanta. Intense, crude, disturbanti, stimolanti. Estranee e non familiari a chi le guarda, provocano scompiglio, scuotono per essere guardate, attraversate, affrontate, senza tirarsi indietro. In un percorso che ha lo spessore del superamento di ogni confine tra io e altro, il risveglio delle coscienze è scandito da un suono immersivo, vibrante, di qualcosa che non vediamo ma fisicamente percepiamo, che ci ricorda che il sonno è tempo in meno per fare qualcosa di utile.
«Ma come un rullio spettrale di tamburi batteva spietatamente la misura della vita, faceva pensare alla distruzione dell’isola e al suo inabissarsi in mare, e ricordava a lei, che aveva trascorso la giornata sbrigando in fretta una commissione dopo l’altra, che tutto era effimero come l’arcobaleno».
Le onde di Arthur Jafa non si infrangono monotonamente sulla spiaggia ma evolvono, costantemente, sotto il cielo di un tramonto eterno. Nere, opulente e ipnotiche, il loro inesauribile fragore è accompagnato da una selezione di testi di canzoni popolari, per lo più Black, come Love don’t live here, live here no more (Rose Roycem, Love don’t live here anymore, 1978), che rafforzano lo scenario apocalittico evocato dall’opera video AGHDRA: 85 minuti di visual sound che attraversa un tempo e si estingue per poi ritornare udibile.
Rumore, suono, suono, rumore. Insistente, quasi subliminale. Fa pensare ad anime ibernate, dimenticate, assopite, ma prossime a raggiungere la soglia della percezione. È tutta una questione di attività cerebrale, che cosa dipende dalla nostra persona? La capacità del linguaggio artistico, come di quello musicale, di attraversare il tempo risiede nell’incontro simbiotico fra il flusso temporale ed il flusso cognitivo del fruitore.
Igor Strawinskji sosteneva che l’arte musicale sia l’unica forma espressiva a richiedere perentoriamente la “vigilanza della memoria”. Arthur Jafa è come se ci facesse entrare nel tempo, quello eterno, ciclico, che ritorna su sé stesso in una serie indefinita di identiche ripetizioni. Che non è sonno ma fa rumore. Che si staglia nel buio del Binario 1 delle OGR Torino e ipnoticamente e rumorosamente ci ricorda che non si può accettare una dottrina che pienamente ostacola la libertà creatrice. Dopo la “quarta dimensione” di Lucio Fontana, del resto, l’arte è giunta definitivamente ad interfacciarsi con il tempo, da allora nelle arti plastiche e figurative gli elementi spaziali e i loro spostamenti diventano indicativi dello scorrere del tempo e rimandano a esperienze temporali che non hanno più né inizio né fine.
Fai rumore, Arthur Jafa.
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