22 settembre 2020

Zehra Dogan alla Prometeo Gallery. Intervista all’artista

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A Milano, alla Prometeo Gallery, 18 lavori e una performance inedita dell'artista e attivista curda Zehra Dogan, nati dalla situazione del popolo curdo e dall'incarcerazione dell'artista, a cui si unisce una riflessione sulla condizione femminile (fino al 15 novembre). L'artista ci ha raccontato tutto questo in una lunga intervista

Zehra Doğan, ph © Hoshin İsa

A Milano, alla Prometeo Gallery Ida Pisani, oggi, 22 settembre, inaugura “Beyond”, la prima personale di Zehra Doğan (1989, Diyarbakır, Turchia) nello spazio milanese di Via Ventura 6, che presenta 18 opere, di cui 13 inedite, 5 appartenenti ai Clandestine Days, del periodo immediatamente successivo alla scarcerazione dell’artista, e la performance pensata per questa mostra (Dress).

«Combattente, attiva e contemplativa, Zehra Doğan ha raccontato e fatto conoscere la storia del popolo curdo attraverso le sue azioni e i suoi disegni. Accusata di fare propaganda per l’organizzazione terroristica PKK, arrestata e poi definitivamente condannata a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di prigionia, lei non si è mai arresa e, nonostante tutti i tentativi per impedirglielo, ha continuato a fare arte all’interno del carcere. Il mondo della cultura, e non solo, si è ribellato e l’ha supportata, come donna e come artista: English Pen, Amnesty International, Ai Wei-Wei, Banksy, Tate Modern di Londra, Museo di Santa Giulia di Brescia, solo per citarne alcuni», ha spiegato la galleria.

Zehra Doğan, (Dress), performance, mostra Beyond, 2020, Prometeo Gallery, courtesy l’artista e Prometeo Gallery

La mostra e la performance (inedita) alla Prometeo Gallery

«Tappeti, teli e mappe curde, sangue mestruale, urina e miscele naturali: su questi supporti e con questi materiali Zehra Doğan ha dipinto, uscendo consapevolmente e non per costrizione dai tradizionali canoni dell’Occidente, per parlare dell’identità femminile e del corpo. «In che modo il corpo è diventato una prigione per le donne, quando invece dovrebbe essere considerato una parte di ciò che siamo e non solo una forma di possesso? Come è stato possibile trasformare la biologia in ideologia? In che modo gli esseri umani, definendo se stessi attraverso i loro corpi, si sono chiusi in norme sessiste?», si interroga Doğan, protestando e opponendosi a una politica di disconnessione dal sé che sottomette il corpo trasformandolo in un oggetto», ha proseguito la galleria.

«”Beyond” rinuncia ai convenzionali simboli di femminilità e di seduzione esprimendo la sua presa di posizione contro l’immagine standard della figura femminile, senza però tralasciare l’uso di riferimenti allegorici. È così che, nel susseguirsi di lavori che le danno forma, ci si può calare in una precisa realtà storica che rimanda alla violenza, quale costante del Kurdistan a cui è negato il riconoscimento di stato indipendente, e rivendica la libertà attraverso quelle nudità che mostrano ferite fisiche e psicologiche».

«Per la mostra Zehra Doğan ha concepito una performance (Dress) per la quale ha realizzato un abito bianco, simile a quello di una sposa, sulle cui lunghe code tagliate emergono simboli calligrafici nella costante associazione fra corpo femminile, parole e violenza. Il ruolo del pubblico sarà essenziale perché smaschererà l’istinto verso il possesso, l’ambizione alla proprietà e la nozione di negazione, che sono presenti nella memoria individuale e collettiva e sempre spingono atti di spoliazione, saccheggio e verso politiche di negoziazione. Come un invito a non smettere di denunciare la realtà da combattere, troppo spesso etno-centrica, razzista e discriminatoria, anche se talvolta ci pare “una storia un po’ complicata”», ha anticipato Prometeo Gallery.

Zehra Doğan, Beyond, veduta della mostra, Ph. Ludovica Mangini, Courtesy of the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani Milan/Lucca

Intervista a Zehra Doğan

Come hai trovato la forza di continuare a fare arte nonostante il carcere?
«Ho trovato questa forza nella mia fede. La mia fede sia nella lunga lotta, condotta dalle donne che la lotta storica del mio popolo per la liberazione della nostra terra occupata. 
Fin da quando ero bambina, sono stata coinvolta in una lotta per l’identità. A soli undici anni prendevo già lezioni d’arte all’interno del Centro di Cultura e Arti Curde. A quel tempo, questi luoghi erano gli unici che tenevano in vita la cultura curda ma erano vietati e sotto la pressione dello Stato. È lì che abbiamo praticato l’arte curda, vietata, con la nostra lingua madre, vietata, con strumenti, vietati. Ho imparato là che l’arte deve essere fatta persistentemente e di continuo.

In prigione non mi sono aggrappata alle circostanze, e non ho cercato di trarne altro potere, avevo già quella fede e quella forza a cui mi aggrappavo fin da quando ero bambina».

Zehra Doğan, Beyond, veduta della mostra, Ph. Ludovica Mangini, Courtesy of the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani Milan/Lucca
Durante i quasi tre anni che sei stata costretta a trascorrere in carcere hai continuato a dipingere con qualsiasi mezzo. Puoi raccontarci come riuscivi a trovare i mezzi per farlo e come hai fatto a conservare i tuoi lavori?
«Purtroppo non tutti nel mondo hanno la stessa fortuna, le stesse possibilità e lo stesso comfort… a differenza delle persone che sono cresciute nella comodità ci sono alcuni popoli che hanno sempre dovuto soccombere alla vita, ma nello stesso tempo hanno mostrato una tale resistenza esistenziale nella povertà che coloro che vivono nell’agio non hanno mai sperimentato. Non sto provando a dare il fascino della vittimazione alla vita degli oppressi, ma voglio dire che gli oppressi portano con sé una creatività partıcolare che dà loro il potere di rivelare la propria esistenza, nell’arte e nella letteratura, in mancanza di altri mezzi.
In carcere non avevo i mezzi sufficienti per produrre arte. Ma avevo fede. Ero un’artista che è stata arrestata per uno deı suoi dipinti, allora non c’era niente di più inevitabile all’interno che continuare a produrre arte e combattere contro di loro con la mia arte. 
L’arte è il mio modo di vivere. In un modo o in un altro ho sempre trovato la via per creare. Il dipinto Nusaybin, per la quale sono stata accusata e incarcerata è stato realizzato in una città in rovina: non all’esterno, non da lontano, ma proprio da dentro, tra le rovine della guerra, con una penna su un cellulare.
Cosa pensi che faccia un artista quando è in prigione? Una che non ha usato i mezzi e i materıalı tradizionali per dipingere quel dipinto per cui è stata arrestata e punita? Trova nuovi mezzi e materıalı! 
Scorte di cibo, sangue mestruale, pitture con escrementi di uccelli, piume e capelli, spazzole, lenzuola, prospetti, asciugamani, giornali, biancheria intima, camicie sono diventati i miei materiali, i miei colorı, le mie tele.
Naturalmente era molto difficile creare e proteggere le mie opere: le confiscavano continuamente. 
Ma sono riuscita a trovare un modo per mandarle fuorı dal prigione di nascosto.
Alcune sono state scoperte dalle guardie del carcere e quasi 30 miei dipinti sono stati bruciati da loro dopo la scoperta. Allora ho cercato e trovato nuovi modi, una forma performativa di protesta, durante la quale mi sono detta «No, perché lo sto facendo? Non devo arrendermi solo perché mi hanno confiscato i miei lavori, devo trovare il modo per renderlo segreto in modo più professionale!».

Ho iniziato a dipingere sul corpo dei miei amici di prigione che poi venivano liberati. Una volta fuori, loro si fotografavano il dipinto che avevo realizzato sulle loro spalle e poi archiviavano le foto, che ora io possiedo. E così sono riuscita a far uscire una dopo l’altra più di 300 opere in un modo che le guardie non potevano mai immaginare».

Zehra Doğan, Beyond, veduta della mostra, Ph. Ludovica Mangini, Courtesy of the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani Milan/Lucca
Hai ricevuto sostegno come curda, donna e artista nella tua battaglia contro una realtà etno-centrica, discriminatoria e in cui i diritti fondamentali non sono garantiti?
«Non ho mai ricevuto questo supporto, solo per conto mio. Il fatto che io abbia ricevuto così tanto sostegno in molte parti del mondo, dimostra quanto sia giusta la questione curda, un popolo che lotta e resiste ai governi oppressori».
Nel tuo lavoro parli della situazione curda. Ci sono aspetti che, secondo te, nei media occidentali non sono sufficientemente trattati in merito a questa situazione?
«I media occidentali non gestiscono adeguatamente questo problema. Oggi sfortunatamente, anche i media sono nelle mani dei alcuni ricchi monopoli che costringono a spostare il focus dell’informazione secondo gli equilibri del governo e del mercato. La verità in Medio Oriente non dovrebbe essere limitata alle dichiarazioni quotidiane e superficiali di Macron, Trump, Putin o chiunque altro. 
Tra il 2015 e il 2016 c’è stata una grande battaglia nella geografia del Kurdistan in Turchia, lo stato turco ha ucciso centinaia di persone, tra loro dozzine di bambini. Le città sono state bombardate. Molti quartieri sono ora cancellati dalla mappa. Ma i media occidentali non hanno dato abbastanza attenzione a quella situazione trattandola come un ordinaria notizia quotidiana. Ancora  oggi nella zona curda ad ovest della Turchia, i curdi vengono uccisi da attacchi razzisti. Questo non è una questione di colore della pelle, di essere nero. Il nero è il colore del destino degli oppressi.
In Turchia ogni mese un bambino viene ucciso da un attacco razzista solo perché è curdo, ma i media occidentali trattano questa tragedia in un modo superficiale. Ma che giornalismo è questo?  Il giornalista non deve lasciarsi influenzare dalla percezione generale, ma deve guardare, analizzare e raccontare ciò che il pubblico non riesca a vedere. 
Pensate alla questione dell’immigrazione per esempio. Oggi tutti parlano del problema dell’immigrazione e si sta creando un mondo immigrante-fobico. Nessuno li vuole più, e ovunque vanno vengano fermati dalla polizia.  Personalmente ogni volta che viaggio vengo fermata e trattata come una potenziale criminale solo perché sono una mediorientale. Questo mi fa odiare il viaggio. Ci guardano e ci considerano transitori e indesiderabili senza chiederci se abbiamo davvero desiderato vivere qui?  Come possono pensare che  ci piaccia  lasciare la nostra famiglia alle spalle, sapendo che non la rivedremo più? Non sanno che l’immigrazione da un punto di vista è il risultato della mancanza di sensibilità da parte di loro stessi a ciò che sta accadendo intorno nel mondo. Tutti sono responsabili del fatto che questo mondo sia diventato quello che è, sia i media che il resto della società, finché metteranno la testa nella sabbia per non sentire e chiuderanno gli occhi per non vedere.
Per risolvere il problema dobbiamo unirci a formare una lotta più forte invece di continuare a rimandare o a tacere, abbiamo bisogno di un giornalismo alto con la penna forte».
Zehra Doğan, Beyond, veduta della mostra, Ph. Ludovica Mangini, Courtesy of the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani Milan/Lucca
In che misura, secondo te, arte e politica sono intrecciate oggi in Kurdistan? Esistono espressioni artistiche che rimangono lontane dalla politica?

«Come artista che ha vissuto in Kurdistan, dove si svolge una delle guerre più brutte del mondo, non potrei mettere al primo piano la ricerca artistica sulle forme plastiche e occuparmi di pratica estetica senza pensare alla realtà che mi ha circondato.
Anche se sono stata perseguitata nel mio paese per un’ identità che nemmeno ho scelto io, credo che non interessarsi di politica può significare avere una personalità turbata nella coscienza.
In un paese con i numeri più alti di persecuzione, donne violentate e bambini assassinati, dove le persone vengono uccise semplicemente per la loro voglia di esprimersi con la loro lingua madre o per la dichiarazione della loro identità sessuale, io ho trovato impossibile allontanarmi dalla politica e non riflettere questo aspetto della vita in Turchia nella mia arte sapendo già che l’unica arma che ho per la lotta è l’arte.
Ci sono artisti che negano questo discorso e vivendo nella loro bolla di vetro mentale, mentre ignorano la realtà continuano a produrre arte senza sporcarsi le mani. Ma poi appena la voce della società si alza e viene sentita, gli stessi mercanti provano a mostrarsi come i più virtuosi artisti della società. Ancora peggio sono gli artisti che affermano di avere una missione politica per sé e si dichiarano come artisti politici senza fare nulla.
Io posso solo commentare, ma la discussione profonda sul questo argomento è un compito degli storici e critici dell’arte».

Zehra Doğan, Bigihêj (Reach), 2020, installation view, On canvas, acrylic, coffee, urine, felt pen
218 x 250 cm, Ph. Ludovica Mangini, Courtesy of the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani Milan/Lucca
Nella mostra alla Prometeogallery hanno una grande rilevanza la tematica dell’identità femminile e quella del corpo. In quali aspetti si uniscono alla tematica della situazione curda?

«Lavoro molto sul corpo nella mia arte. Preferisco restituire la mia espressione attraverso il corpo. Questo è il motivo per cui sto elaborando il mio discorso sulla lotta delle donne curde di cui faccio parte, attraverso le figure femminili. Non possiamo separare la situazione in Kurdistan dalle politiche sul corpo femminile. Per migliaia di anni, la politica di guerra, della mentalità maschile è stata portata avanti sul corpo femminile. Sto esprimendo il problema con il metodo di “Margine contro il Testo”, per confrontare lo stesso sistema che rende il mio lavoro una merce, che rende la biologia un’ideologia.
La donna nelle mie pitture non è solo curda, ma un corpo mondiale che resiste e combatte contro il sistema panottico della mentalità maschile che comanda e chiede l’obbedienza costante dalle donne, che le forza a guardare in basso mentre camminando, di vergognarsi scusarsi per tutto ciò che fanno e che sono.
In questa mostra ho usato soprattutto le immagini dell’arma per indicare la metafora di “militante” riguardo all’armamento delle donne contro le organizzazioni islamiche radicali in Medio Oriente, e mettere in luce la differenza fondamentale tra ciò che viene definito “militare” in Europa che riguarda chiunque che porta la pistola, e le donne che sono costrette a portare la pistola per proteggersi e difendersi; per dire quanta è sbagliata questa percezione occidentale di quelle donne, senza chiedersi mai come si può mettere fine a questa guerra. Vorrei che i visitatori della mostra sentisse l’empatia con quello che succede alle donne in Medio Oriente».

Zehra Doğan, Yekbûn” (Unity), 2020, installation view, On carpet, acrylic, gold paper, 126 x 200 cm, Ph. Ludovica Mangini
Courtesy of the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani Milan/Lucca
Su quali aspetti della tematica e dell’identità femminile, in particolare, lavori?

«Esamino i concetti di confini, paesi, razze, norme di genere, identificazione, comprensione dello stato-nazione, fascismo e discriminazione attraverso le politiche di guerra create dalla prospettiva maschile attraverso il rapporto tra corpo e terra. Metto in discussione il mondo dalla gabbia panottica che ci circonda trasformando i nostri corpi in prigioni che imprigionano le donne, in particolare come strumento politico, e le trasformano in ideologia».

Che cosa significa, secondo te, appartenere al popolo curdo oggi? 

«Significa che sei nei guai».

Che cosa è successo dopo il carcere? Come ti sei mossa?

«Per me il trasferimento in Europa non è stato un volere, ma un dovere. Qui non ho chiesto asilo perché vorrei tornare un giorno. Sono costretta a passare ore nelle file consolari ogni mese per chiedere il visto e rispondere alle domande assurde e scioccanti come “perché sei qui?”. Sembra che non basti quello che sono e vengo spesso arrestata negli aeroporti.
Gli Stati Uniti per esempio ancora non mi concedono il visto, sebbene abbia costantemente mostre lì, non posso andarci. Ma comunque non perderò tempo annoiando con il discorso sugli “others”!
Non ho perso il legame che ho con il mio paese e ancora tutti i miei lavori riguardano la mia patria. Non posso mai voltare le spalle alla mia realtà.
Attualmente stiamo provando a costruire un Museo della Memoria a Kobane, la città simbolo della resistenza – dove è successo il combattimento più intenso con lo stato islamico in Syria –  sotto il nome dell’associazione “Mesela”, ad esempio, che abbiamo costituito con un gruppo dei artisti.
Costruire il Museo della Memoria di Kobane è molto importante per noi sapendo che la prima strategica che i regimi totalitari usano per far obbedire i popoli è cancellare la loro memoria collettiva».

Zehra Dogan, Nêrîn (Look), 2020. On carpet, acrylic, felt pen, powder pastel, 240 x 155 cm. Ph. Ludovica Mangini, Courtesy of the artist and Prometeo Gallery Ida Pisani Milan/Lucca

 

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