A Milano, alla Prometeo Gallery Ida Pisani, oggi, 22 settembre, inaugura “Beyond”, la prima personale di Zehra Doğan (1989, Diyarbakır, Turchia) nello spazio milanese di Via Ventura 6, che presenta 18 opere, di cui 13 inedite, 5 appartenenti ai Clandestine Days, del periodo immediatamente successivo alla scarcerazione dell’artista, e la performance pensata per questa mostra (Dress).
«Combattente, attiva e contemplativa, Zehra Doğan ha raccontato e fatto conoscere la storia del popolo curdo attraverso le sue azioni e i suoi disegni. Accusata di fare propaganda per l’organizzazione terroristica PKK, arrestata e poi definitivamente condannata a 2 anni, 9 mesi e 22 giorni di prigionia, lei non si è mai arresa e, nonostante tutti i tentativi per impedirglielo, ha continuato a fare arte all’interno del carcere. Il mondo della cultura, e non solo, si è ribellato e l’ha supportata, come donna e come artista: English Pen, Amnesty International, Ai Wei-Wei, Banksy, Tate Modern di Londra, Museo di Santa Giulia di Brescia, solo per citarne alcuni», ha spiegato la galleria.
«Tappeti, teli e mappe curde, sangue mestruale, urina e miscele naturali: su questi supporti e con questi materiali Zehra Doğan ha dipinto, uscendo consapevolmente e non per costrizione dai tradizionali canoni dell’Occidente, per parlare dell’identità femminile e del corpo. «In che modo il corpo è diventato una prigione per le donne, quando invece dovrebbe essere considerato una parte di ciò che siamo e non solo una forma di possesso? Come è stato possibile trasformare la biologia in ideologia? In che modo gli esseri umani, definendo se stessi attraverso i loro corpi, si sono chiusi in norme sessiste?», si interroga Doğan, protestando e opponendosi a una politica di disconnessione dal sé che sottomette il corpo trasformandolo in un oggetto», ha proseguito la galleria.
«”Beyond” rinuncia ai convenzionali simboli di femminilità e di seduzione esprimendo la sua presa di posizione contro l’immagine standard della figura femminile, senza però tralasciare l’uso di riferimenti allegorici. È così che, nel susseguirsi di lavori che le danno forma, ci si può calare in una precisa realtà storica che rimanda alla violenza, quale costante del Kurdistan a cui è negato il riconoscimento di stato indipendente, e rivendica la libertà attraverso quelle nudità che mostrano ferite fisiche e psicologiche».
«Per la mostra Zehra Doğan ha concepito una performance (Dress) per la quale ha realizzato un abito bianco, simile a quello di una sposa, sulle cui lunghe code tagliate emergono simboli calligrafici nella costante associazione fra corpo femminile, parole e violenza. Il ruolo del pubblico sarà essenziale perché smaschererà l’istinto verso il possesso, l’ambizione alla proprietà e la nozione di negazione, che sono presenti nella memoria individuale e collettiva e sempre spingono atti di spoliazione, saccheggio e verso politiche di negoziazione. Come un invito a non smettere di denunciare la realtà da combattere, troppo spesso etno-centrica, razzista e discriminatoria, anche se talvolta ci pare “una storia un po’ complicata”», ha anticipato Prometeo Gallery.
In prigione non mi sono aggrappata alle circostanze, e non ho cercato di trarne altro potere, avevo già quella fede e quella forza a cui mi aggrappavo fin da quando ero bambina».
Ho iniziato a dipingere sul corpo dei miei amici di prigione che poi venivano liberati. Una volta fuori, loro si fotografavano il dipinto che avevo realizzato sulle loro spalle e poi archiviavano le foto, che ora io possiedo. E così sono riuscita a far uscire una dopo l’altra più di 300 opere in un modo che le guardie non potevano mai immaginare».
«Come artista che ha vissuto in Kurdistan, dove si svolge una delle guerre più brutte del mondo, non potrei mettere al primo piano la ricerca artistica sulle forme plastiche e occuparmi di pratica estetica senza pensare alla realtà che mi ha circondato.
Anche se sono stata perseguitata nel mio paese per un’ identità che nemmeno ho scelto io, credo che non interessarsi di politica può significare avere una personalità turbata nella coscienza.
In un paese con i numeri più alti di persecuzione, donne violentate e bambini assassinati, dove le persone vengono uccise semplicemente per la loro voglia di esprimersi con la loro lingua madre o per la dichiarazione della loro identità sessuale, io ho trovato impossibile allontanarmi dalla politica e non riflettere questo aspetto della vita in Turchia nella mia arte sapendo già che l’unica arma che ho per la lotta è l’arte.
Ci sono artisti che negano questo discorso e vivendo nella loro bolla di vetro mentale, mentre ignorano la realtà continuano a produrre arte senza sporcarsi le mani. Ma poi appena la voce della società si alza e viene sentita, gli stessi mercanti provano a mostrarsi come i più virtuosi artisti della società. Ancora peggio sono gli artisti che affermano di avere una missione politica per sé e si dichiarano come artisti politici senza fare nulla.
Io posso solo commentare, ma la discussione profonda sul questo argomento è un compito degli storici e critici dell’arte».
«Lavoro molto sul corpo nella mia arte. Preferisco restituire la mia espressione attraverso il corpo. Questo è il motivo per cui sto elaborando il mio discorso sulla lotta delle donne curde di cui faccio parte, attraverso le figure femminili. Non possiamo separare la situazione in Kurdistan dalle politiche sul corpo femminile. Per migliaia di anni, la politica di guerra, della mentalità maschile è stata portata avanti sul corpo femminile. Sto esprimendo il problema con il metodo di “Margine contro il Testo”, per confrontare lo stesso sistema che rende il mio lavoro una merce, che rende la biologia un’ideologia.
La donna nelle mie pitture non è solo curda, ma un corpo mondiale che resiste e combatte contro il sistema panottico della mentalità maschile che comanda e chiede l’obbedienza costante dalle donne, che le forza a guardare in basso mentre camminando, di vergognarsi scusarsi per tutto ciò che fanno e che sono.
In questa mostra ho usato soprattutto le immagini dell’arma per indicare la metafora di “militante” riguardo all’armamento delle donne contro le organizzazioni islamiche radicali in Medio Oriente, e mettere in luce la differenza fondamentale tra ciò che viene definito “militare” in Europa che riguarda chiunque che porta la pistola, e le donne che sono costrette a portare la pistola per proteggersi e difendersi; per dire quanta è sbagliata questa percezione occidentale di quelle donne, senza chiedersi mai come si può mettere fine a questa guerra. Vorrei che i visitatori della mostra sentisse l’empatia con quello che succede alle donne in Medio Oriente».
«Esamino i concetti di confini, paesi, razze, norme di genere, identificazione, comprensione dello stato-nazione, fascismo e discriminazione attraverso le politiche di guerra create dalla prospettiva maschile attraverso il rapporto tra corpo e terra. Metto in discussione il mondo dalla gabbia panottica che ci circonda trasformando i nostri corpi in prigioni che imprigionano le donne, in particolare come strumento politico, e le trasformano in ideologia».
«Significa che sei nei guai».
«Per me il trasferimento in Europa non è stato un volere, ma un dovere. Qui non ho chiesto asilo perché vorrei tornare un giorno. Sono costretta a passare ore nelle file consolari ogni mese per chiedere il visto e rispondere alle domande assurde e scioccanti come “perché sei qui?”. Sembra che non basti quello che sono e vengo spesso arrestata negli aeroporti.
Gli Stati Uniti per esempio ancora non mi concedono il visto, sebbene abbia costantemente mostre lì, non posso andarci. Ma comunque non perderò tempo annoiando con il discorso sugli “others”!
Non ho perso il legame che ho con il mio paese e ancora tutti i miei lavori riguardano la mia patria. Non posso mai voltare le spalle alla mia realtà.
Attualmente stiamo provando a costruire un Museo della Memoria a Kobane, la città simbolo della resistenza – dove è successo il combattimento più intenso con lo stato islamico in Syria – sotto il nome dell’associazione “Mesela”, ad esempio, che abbiamo costituito con un gruppo dei artisti.
Costruire il Museo della Memoria di Kobane è molto importante per noi sapendo che la prima strategica che i regimi totalitari usano per far obbedire i popoli è cancellare la loro memoria collettiva».
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