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Inaugura oggi, 16 novembre, al Museo di Santa Giulia di Brescia la personale che porta per la prima volta in Italia il lavoro dell’artista, giornalista e attivista curda Zehra Doğan (1989, Diyarbakir, Turchia): “Avremo anche giorni migliori – Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche”, a cura di Elettra Stamboulis.
La mostra, voluta dal Comune di Brescia e dalla Fondazione Brescia Musei, diretta da Stefano Karadjov, si colloca nell’ambito della terza edizione del Festival della Pace di Brescia (dal 15 al 30 novembre 2019). In questo contesto negli spazi della mostra sabato 23 novembre, alle 16.00, si terrà un incontro aperto al pubblico con Zehra Doğan, che sarà dedicato alla memoria di Hevrin Khalaf.
«Il percorso espositivo, concepito da Elettra Stamboulis, riunisce circa 60 opere inedite, tra disegni, dipinti e lavori a tecnica mista, che interessano tutto il periodo della detenzione dell’artista nelle carceri di Mardin, Diyarbakir e Tarso, dove Zehra è stata rinchiusa per 2 anni, nove mesi e 22 giorni con l’accusa di propaganda terrorista per aver postato su Twitter un acquarello tratto da una fotografia scattata da un soldato turco», si legge nel comunicato stampa.
“Avremo anche giorni migliori” «costituisce la prima mostra di impianto critico curatoriale dedicata all’opera della fondatrice dell’agenzia giornalistica femminista curda “Jinha”», anche protagonista di una performance organizzata lo scorso maggio presso la Tate Modern di Londra, città in cui Zehra Doğan ha scelto provvisoriamente di vivere il proprio esilio, ha spiegato l’organizzazione.
Abbiamo posto alcune domande a Elettra Stamboulis, curatrice della mostra.
Come è nata la mostra?
«La mostra è nata su richiesta degli organizzatori del Festival della Pace di Brescia e in particolare della sua amministrazione comunale. Io sono in contatto con Kedistan, l’organizzazione francese che detiene i diritti esclusivi dell’artista e che ha lavorato per supportare il suo rilascio e sensibilizzare a livello internazionale l’opinione pubblica dal 2018».
Come è strutturato il percorso espositivo?
«Ci sono sessanta opere, realizzate su supporti diversi (brandelli di lenzuola, carta da pacchi, stagnola da pacchetto di sigarette…) di cui cinquantasei provenienti dalle carceri turche. Le opere sono state trasferite in modo rocambolesco in Europa e conservate da Kedistan in Francia. Sono suddivise in tre sezioni: macchie, corpi, politica. Nell’ultima stanza ci sono anche quattro lavori realizzati a Londra dopo il suo auto esilio e la camicia con le scritte e i disegni che le detenute le hanno fatto prima del suo rilascio. Si tratta di un percorso dal forte impatto emotivo».
Può riassumerci, in estrema sintesi, l’intreccio tra arte e vita personale nella storia di Zehra Dogan?
«Se vogliamo trovare un’etichetta, femminista è la prima identità di Zehra, che si è formata all’università di Diyarbakir in Arte, e ha poi proseguito giovanissima nella carriera di giornalista impegnata sul fronte. Per lei non c’è soluzione di continuità tra arte e vita, tra impegno politico e relazione. Questa idea è talmente radicata, che quando è stata imprigionata per un disegno, ha creato nelle tre carceri in cui è stata via via trasferita una comunità di co-creazione con le detenute che ha incontrato. Non parlo di laboratori d’arte, peraltro non ammessi. Ha usato la sua disciplina estetica, come la chiama lei, per creare relazioni attraverso l’arte con le altre detenute, che potevano essere giornaliste come lei o comuni prigioniere, per raccontare quello che accadeva oltre le cinta delle prigioni, per mostrare che cosa significa segregare i corpi, ma soprattutto che lo spazio della libertà datoci dall’arte non può essere castigato. Quindi direi che più che intreccio, per lei la vita è arte, ma non nel senso dandy della definizione…».
Che cos’è “Jinha” fondata dall’artista?
“Jinha” era l’agenzia stampa fondata da Zehra Doğan l’8 marzo 2012. Si tratta di un percorso veramente originale, in cui tutto il personale coinvolto erano solo donne: l’obiettivo era “superare il sessismo nei media, la vita” e dare “una prospettiva di visibilità delle donne e dare voce a tutte le donne”. Formata da una rete di giornaliste e volontarie in Turchia, Rojava e Kurdistan iracheno, così come al di fuori del Kurdistan pubblicava notizie, con foto e video, in lingua curda, turca e inglese.
È stata chiusa insieme ad altri 146 organi di stampa a seguito della legge marziale dopo il fallito golpe in Turchia il 29 ottobre 2016.
Era stata fatta una campagna di sensibilizzazione con l’hashtag #JINHAcannotbesilenced che ovviamente non ha turbato il legislatore turco».
Come è stata recepita la drammatica vicenda personale dell’artista dal mondo dell’arte?
«Il mondo internazionale dell’arte, soprattutto grazie all’influente azione di Ai Weiwei e di Banksy ha reagito in modo abbastanza deciso (uso abbastanza perché ovviamente ci sono tanti che semplicemente tacciono). Certo, per Zehra la cosa più dolorosa è non aver ricevuto nessun attestato di vicinanza da nessun artista turco, anche se si può capire visto il clima di paura che si respira nel paese, al contempo è un fatto grave».
Si può individuare un legame tra la mostra di Brescia e la performance dell’artista alla Tate Modern nel maggio scorso?
«Con la performance di Londra non ci sono legami, nel senso che quello fu un evento inserito in un calendario dal titolo Who are we?, concepito da Counterpoints Arts e da The Open University con artisti e attivisti a cui era stata data carta bianca. In quel caso Zehra ha realizzato un’installazione temporanea di alcuni giorni, nel caso di Brescia si tratta di una monografica di carattere critico, dotata di apparato e lettura curatoriale basata sulla visione del suo archivio e di una selezione da me operata per mostrare i nodi cruciali della sua poetica».
In che modo Lei è entrata in contatto con Zehra Doğan?
«Avevo scritto di lei su East West e insieme al mio compagno, l’artista Gianluca Costantini, eravamo stati ospiti a Morlaix di Kedistan, in occasione di un’iniziativa espositiva in Francia durante la sua detenzione. Gianluca aveva partecipato alla campagna di sensibilizzazione internazionale con i suoi disegni su Twitter con il suo profilo Channeldraw. Così c’era già un legame forte con lei e gli attivisti che la sostengono, di fiducia reciproca. L’articolo su East West è stato il nesso mediante il quale sono stata contattata per curare la mostra, cosa alla quale già pensavo e che così si è realizzata nei migliori dei modi».
In quali contesti potremo vedere il lavoro dell’artista nei prossimi mesi?
«Stiamo lavorando per far girare la mostra in altri musei, sia italiani che stranieri. C’è un grande interesse, ma vogliamo muoverci garantendo all’artista la qualità professionale e gli spazi che merita il suo lavoro».
Zehra Doğan
Avremo anche giorni migliori. Zehra Doğan. Opere dalle carceri turche
A cura di Elettra Stamboulis
Dal 16 novembre 2019 al 6 gennaio 2020
Museo di Santa Giulia
Via Musei 55, Bescia
Opening: 15 novembre 2019, dalle 19.00 alle 21.00
Sabato 23 novembre alle 16.00 in mostra si terrà un incontro aperto al pubblico con l’artista, dedicato alla memoria di Hevrin Khalaf.
Orari: dal martedì al venerdì dalle 9.00 alle 17.00,
sabato, domenica e festivi dalle 9.00 alle 18.00 (chiuso tutti i lunedì non festivi)
www.bresciamusei.com, santagiulia@bresciamusei.com