Se quanto si sa della Maja desnuda di Goya (1746-1828) appartiene in gran parte al regno delle ipotesi, le nostre conoscenze circa la versione vestida del celebre dipinto si limitano perlopiù a deduzioni tratte dal raffronto con quell’opera.
Grazie alla testimonianza di un visitatore si sa che, nel 1800, la Maja desnuda (ma non quella vestida, che quindi sarebbe successiva a questa data) apparteneva alla collezione di Manuel de Godoy, a lungo primo ministro del regno di Spagna e tra i maggiori committenti di Goya nella prima decade del XIX secolo. È dunque probabile che la Maja vestida sia stata eseguita tra il 1800 e il 1805, data che segna il termine del legame professionale tra Goya e Godoy. Di certo si sa che il quadro è citato in un inventario eseguito sugli averi dell’ex primo ministro nel 1808, dopo la sua caduta in disgrazia.
Circa il soggetto delle due opere sono in passato circolate storie fantasiose: si è a lungo ritenuto che la testa della donna ritratta nella Maja desnuda, che non sarebbe in armonia con il suo corpo, fosse stata dipinta per coprire il volto di Pepita Tudo, in seguito al matrimonio del primo ministro con una nobildonna, celebrato per ordine del re. Non potendo tenere un ritratto della sua amante, Godoy avrebbe chiesto a Goya di rimpiazzare la testa di Pepita con quella di una qualunque altra donna, e in seguito fatto realizzare una più casta versione dello stesso dipinto. Recentemente i raggi X hanno però evidenziato che la testa è quella originale, e costretto quindi a scartare questa possibilità.
Un’ipotesi alternativa vede nella donna rappresentata la duchessa d’Alba, cui Goya fu a lungo legato da una relazione di (quanto meno) profonda amicizia e che morì di febbre e tubercolosi nel 1802, a trentotto anni. Nonostante la somiglianza di questa maja con la donna ritratta in più occasioni da Goya, sembra però del tutto improbabile che la Maja desnuda sia una donna di trentasei anni gravemente malata, e questa identificazione pare incompatibile con il fatto che i due dipinti fossero stati eseguiti per Godoy.
Anche l’oggetto della rappresentazione, oltre al committente, è di fatto molto più controverso di quanto il titolo con cui il dipinto è noto lasci pensare. Il richiamo al tipo della maja, popolare nella letteratura spagnola dell’epoca, sembra infatti per la seconda versione del tutto inappropriato. La maja, che era la compagna del majo (l’uomo del popolo, fieramente spagnolo, che incarnava i più tipici aspetti del carattere nazionale), portava infatti con sé una connotazione di sfrontatezza e libera sensualità.
Anche senza vestiti, quella della prima versione può essere identificata con una maja: a differenza dei classici e idealizzati nudi rinascimentali questa si presenta come la rappresentazione di un’impudica donna “reale”, che con il suo sguardo cattura quello dell’osservatore, sfidandolo a osservare la sua nudità.
Nonostante anche quella vestida sia passata alla storia come una maja (persino Baudelaire accreditò l’idea che si trattasse della duchessa d’Alba vestita come una maja andalusa), un’attenta osservazione rivela in realtà uno stile d’abbigliamento che poco ha a che fare con la moda che questa seguiva, di cui Goya aveva precisa conoscenza, poiché aveva dipinto mayas in molti dei cartoni per arazzi del suo primo periodo. La Maja vestida non indossa la basquiña, la tradizionale mantiglia, ma un abito bianco, un lungo e leggero camicione stretto in vita da un’ampia fascia rosa i cui riflessi tradiscono un lussuoso tessuto lucido. La sua giacchettina gialla e nera che non è il classico bolerino, detto jubón, e le sue scarpe dalla punta lunga e affusolata paiono più alla maniera delle ricche signore che delle majas, che in genere indossavano calzature meno appuntite dotate di fibbie dorate. I suoi capelli poi sono sciolti e non, come in tutte le altre rappresentazioni di majas in Goya, acconciati con una rete a tenerli raccolti.
Oltre a sollevare numerosi dubbi circa la sua origine e a divergere dalla prima quanto all’oggetto della rappresentazione, la Maja vestida se ne allontana anche dal punto di vista della tecnica utilizzata. La Maja desnuda è definita da pennellate piccole e senza sbavature, e in essa il pittore indulge a una gradazione tonale brillantemente eseguita che sottolinea la qualità delle superfici. La Maja vestida rivela invece tocchi più casuali e meno rifiniti, che mutano costantemente direzione, ed è caratterizzata da colori più accesi. In particolare la sgargiante giacchetta e il verde del divano sono resi in modo sommario, e il colore di quest’ultimo è molto diverso da quello del sofà su cui era sdraiata la desnuda, di cui Goya aveva enfatizzato la texture brillante del velluto. Anche i merletti dei cuscini e le pieghe della biancheria su cui la donna è adagiata sono qui fortemente modificati e semplificati. Lo spazio della Maja vestida è inoltre piatto: in essa il pittore rinuncia all’illuminazione diffusa dello sfondo che, nella Maja desnuda, rimanda allo spazio che non è visibile.
Apparentemente due versioni dello stesso soggetto, le due majas del Prado rimandano in definitiva a tempi, intenti e modi profondamente diversi, che se nel caso della prima è in una certa misura possibile indagare, per quanto riguarda la successiva restano in gran parte un mistero, che il fascino minore che il soggetto emana rispetto al primo nudo celebre della storia dell’arte spagnola ha contribuito a oscurare e far sottovalutare.
biografia. Francisco Goya nasce nel 1746 a Fuendetodos, in Spagna. Entrato a corte nel 1775, realizza una serie di oltre 60 cartoni con dipinti preparatori per arazzi, con gioiose rappresentazioni della vita del popolo, e ritrae personaggi dell’aristocrazia a lui contemporanei, colti in pose convenzionali. Nel 1792 diviene sordo in seguito a una malattia, evento che influenza profondamente la sua pittura. In questo periodo si dedica all’incisione, che utilizza per realizzare una serie di 80 caricature (“Los caprichos”, pubblicati nel 1799).
In seguito Goya documenta gli orrori e la violenza dell’invasione napoleonica del 1808 con una serie di incisioni dalla composizione drammatica, ricche di dettagli brutali (“Los desastres de la guerra”).
L’ultimo periodo della sua vita è segnato dalle cosiddette “pitture nere”, con cui ricoprì le pareti della sua casa (la Quinta del Sordo), e da una serie di incisioni, una sorta di rappresentazioni di incubi in un linguaggio espressionista che sembra riflettere cinismo, pessimismo e disperazione. Muore a Bordeaux, in Francia, nel 1828.
bibliografia essenziale
John T. Spike e Feliciano Paoli, a cura di, I disastri della guerra. Incisioni di Francisco Goya, Il lavoro Editoriale, Ancona 2000
H. Friedel, Il sonno della ragione genera mostri. Goya e Rainer, Mazzotta, Milano 1995
Goya, Adam Biro Editions, Paris 1988
Gassier, Pierre; Wilson, Juliet e Lachenal, François, Goya. Life and work, Evergreen, Köln, 1971
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olio su tela; 97 x 190 cm
Madrid, Museo Nacional del Prado
valentina ballardini
progetto editoriale a cura di daniela bruni
[exibart]
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