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Max Ernst | La grande ruota ortocromatica che fa l’amore su misura

di - 9 Settembre 2002

L’opera venne esposta per la prima volta nella mostra dada realizzata da Jean Arp, Baargeld e da Ernst a Colonia nel 1920 e poi al Bauhaus insieme ad opere di Arp e della compagna di quest’ultimo Sophie Taeuber.
Nel 1918 il pittore aveva già realizzato i suoi primi collages, ma è proprio con i soggetti meccanici che abbraccia completamente le idee dadaiste.
Chiave di lettura di questa opera è senza dubbio lo stesso manifesto dada attraverso il quale è possibile capire l’origine dell’ambiguità che chiaramente esprime.
Tzara fu il primo a intuire che l’arte aveva bisogno di opere forti, precise e dirette, in modo da creare nello spettatore una sorta di spaesamento, di frastuono visivo ed emotivo che poteva permettere all’opera di demonizzare l’arte e di poter essere veicolo di idee nuove e rivoluzionarie. Il primo obiettivo dadaista è l’abbattimento dell’arte con la A maiuscola, proponendo un linguaggio alternativo, dissacrante, eversivo e blasfemo. È per questo motivo che egli propone agli artisti di creare oggetti e non opere d’arte, ma anche di utilizzare la macchina (come già avevano fatto i futuristi) per creare, attraverso l’ausilio di titoli bizzarri, opere ironiche, forti, ricche di suggestioni inconsce. Va detto però, che diversamente dal movimento marinettiano, la macchina non viene usata dai dadaisti come idolo e simbolo della contemporaneità, ma è un pretesto per creare opere ambigue ed ironiche.
L’opera di Ernst sembra essere nata dai suggerimenti stessi di Tzara, ma in questa immagine l’autore supera le parole del poeta francese, portando al massimo i suoi propositi, poiché egli sostituisce completamente l’uomo con la macchina.
La macchina, infatti, è l’assoluta protagonista, essa si sostituisce all’uomo non solo nelle sue tradizionali operazioni quotidiane, ma soprattutto nella sfera dell’eros e dell’amore, nei suoi processi sentimentali e sessuali più profondi, andando a colpire la parte più intima dell’umanità; essa diviene il simbolo erotico per eccellenza, nei suoi strani ingranaggi, nella sua struttura al tempo stesso reale ed immaginaria Ernst nega l’eros e la sessualità umana proponendone un’altra meccanizzata.
Vengono associate qui immagini scientifiche e fantastiche all’interno di uno spazio ambiguo e volutamente astratto, ponendo perciò l’oggetto meccanico in una posizione precaria sospesa tra realtà e sogno. Il pittore carica l’immagine di rimandi, allusioni, nella quale la realtà stratificata diventa plurima, ironica ed ambigua.
L’ironia è il sentimento prevalente in quest’opera ed è anche l’elemento portante di tutte le opere dadaiste.
In questo caso anche il titolo, riportato da Ernst nella parte bassa, rafforza l’obiettivo dell’autore di ironizzare sui sentimenti, ma ha anche il compito di rafforzare l’ambiguità del soggetto dell’opera, negando il confine, fino a quel momento nettissimo, tra realtà e sogno.
Ad Ernst, infatti, non basta dare un nome differente o irreale alle cose, la sua intenzione è piuttosto quella di aggiungere al vecchio un nuovo significato per creare dubbi ed incertezze tra gli spettatori.
La ruota ortocromtica si avvicina molto, inoltre, ai disegni meccanici di un altro grande artista dadaista, Francis Picabia. Essa riprende, infatti, sia nella composizione, che nei simboli e nel significato Parade Amoureuse che Picabia realizzò durante il suo soggiorno americano nel 1917.
E’ questo artista che fa conoscere ad Ernst la macchina ed è lui che gli fa capire la sua grande valenza rivoluzionaria e la sua forza esplosiva.
Come si legge in DADA ALMANACH [ Berlino-1920] (la più importante rivista del movimento tedesco) essa con i suoi meccanismi, con i suoi profili in ferro, coi suoi ingranaggi acquista improvvisamente una forza brutale, acquista una nuova vita, dentro la quale vibrano ironia, allegria, stanchezza ed erotismo. Questo nuovo modo di utilizzare la macchina distrugge ogni canone tradizionale e naturale della bellezza, ed ogni chiara ed equilibrata posizione accademica dell’arte.
Ernst con quest’opera ha interpretato egregiamente le parole di Tristan Tzra nel manifesto dadaista: “ Dada è al di sopra delle regole del bello e del suo controllo”; essa è anche il simbolo della sua entrata nel movimento, l’emblema del suo definitivo allontanamento dalle esperienze espressioniste e cubiste, ma anche il ponte di passaggio per la creazione di opere sempre più eversive, nelle quali allarga ulteriormente il suo immaginario dando vita a opere popolate da strane creature metamorfiche collocate in spazi e luoghi surreali, aprendo così le porte alla grande stagione surrealista.

bio Nasce il 2 aprile 1891 in un piccolo villaggio della Renania, Bruhl, vicino Colonia.
Nel 1909 dopo le superiori si iscrive alla Facoltà di Lettere e Filosofia a Bonn e contestualmente agli studi inizia a visitare mostre e rassegne d’arte. E’ nel 1912 a Colonia, dopo aver visita una retrospettiva nella quale sono riunite opere di Van Gogh, Cézanne, Gauguin, Picasso, Munch, Manet, Pisarro decide di diventare pittore. Nel 1913 a Berlino espone al Primo Salone d’Autunno, organizzato dalla Rivista Der Sturm, con lui partecipano anche Klee, Arp, Chagall e Delauny. Nel 1917 partecipa alla Seconda Mostra DADA a Zurigo, stringe amicizia col pittore Arp che gli resterà amico fino alla morte. Nel 1919, dopo il suo primo matrimonio conosce Baargeld, col quale fonda a Colonia il gruppo dada di quella città. Inizia a sperimentare i primi collages da immagini stampate. Nel 1920 con Arp inizia la serie dei collages Fatagaga, poco dopo nasce una lunga amicizia epistolare con André Breton. Nel 1922 si trasferisce in Francia dove conosce Francis Picabia e Man Ray. Nel 1924 accetta con entusiasmo le idee surrealiste pubblicate dall’amico Breton nel manifesto del nuovo movimento. Nel 1927 sviluppa le tecniche del frottage. Nel 1933 viene iscritto nelle liste nere del nazismo. Nel 1940 viene internato per motivi politici in un ospedale per alienati mentali. Evade piú volte, braccato dalla Gestapo decide di abbandonare l’Europa, dopo aver conosciuto nel 1941 Peggie Guggenehim scappando a New York grazie al suo aiuto. Alla fine di quello stesso anno sposa Peggie Guggenehim. Vive fino al 1948 in America, ma dopo aver vissuto pochi anni con la gallerista americana, torna in Europa sposando DorotheaTanning. Nel 1953 si stabilisce a Parigi dove intesse rapporti con Giacometti, Breton, Arp e Tzara. Un anno più tardi vince la XXVII Biennale di Venezia. Muore nel sud della Francia nel 1976.

bibliografia essenziale
Pere Gimferrer, Max Ernst, Rizzoli Editore, Milano, 1985;
Mario De Micheli, Le Avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 1986;
Tristan Tzara, Manifesti del dadaismo e Lampisterie, a cura di Giampiero Posani, Einaudi, Torino, 1990;
Giuseppe Gatt, Ernst, in “Art e Dossier”, Firenze, n. 63, dicembre 1991, Giunti Editore, Firenze, 1991;
Francesco Tedeschi, Dadaismo, Mondadori, Milano, 1991;
Marta Ragozzino, Dada, in “Art e Dossier”, Firenze, n. 90, maggio 1994, Giunti Editore, Firenze, 1994.

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  • articolo ben scritto..i dadaisti restano una mia antica passione..vorrei segnalare il fascicolo di RIGA su PICABIA..complimenti per questa bella recensione..
    roberto matarazzo

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