Categorie: opera

opera | Giorgio de Chirico – Canto d’amore

di - 15 Marzo 2006

Davanti a quest’opera un giovane René Magritte scoppiò in lacrime di commozione e decise il suo destino di surrealista. Lo stesso titolo, Canto d’amore, sembra infatti precorrere le inusitate e singolari scelte del maestro belga riguardo i titoli delle sue opere, sempre spiazzanti ed enigmatici. E alcuni degli oggetti qui raffigurati da de Chirico vivranno, riassemblati, una nuova sorprendente vita in successive tele di Magritte, come La memoria, dipinto nel 1948.
Un guanto rosso di plastica è inchiodato ad una sorta di quinta, assolutamente inutile nell’economia dell’architettura ad arcate di cui sembra una fortuita propaggine. Accanto, la testa dell’Apollo del Belvedere sfoggia tutta la sua disturbante classicità. Quindi una sfera verde in primo piano. E un treno a vapore, sullo sfondo, che sbuffa distratto, di là da un anonimo muretto.
Ma il bell’Apollo è gigantesco. E il guanto e la sfera pure. Tutto, nella composizione è così spropositato e inedito che davvero ogni corrispondenza sembra sfuggire, ogni ipotesi perde credibilità, ogni senso che si vorrebbe attribuire al guanto di gomma (un senso qualsiasi, pur di uscire dall’impasse) sembra smarrirsi, ingoiato dall’oscurità delle arcate sulla destra.
Le piazze metafisiche di Giorgio de Chirico, sigillate dalla presenza dei caratteristici portici che le delimitano e le incorniciano, non sono neanche più sogno: tutto in esse è solitudine e desolazione, è mancanza di senso. È pura, rassegnata, eppure inquietante mancanza.
La Prima Guerra Mondiale è già scoppiata (e qualcuno ha visto, nell’accostamento cromatico degli oggetti –l’Apollo bianco, il guanto rosso e la sfera verde- un implicito patriottico riferimento al tricolore italiano); lo stesso de Chirico finisce in ospedale per le ferite riportate al fronte: qui incontra Carlo Carrà, reduce dall’avanguardia futurista, insieme al quale darà vita a quel fenomeno artistico prettamente italiano che va sotto il nome di Metafisica.
Superata la soglia del Novecento, tutto in arte sembra essere stato sperimentato, tutto è stato fatto e rifatto, proposto e riproposto con la periodicità tipica dei movimenti di idee. Tale avvilente mancanza di stimoli nuovi induce de Chirico a un recupero totale di motivi e soggetti tratti dalla gloriosa antichità, quando tutto era bellezza e armonia.
Così statue e gessi plasmati su modelli greci e romani fanno la loro apparizione nelle tele dell’artista, sullo sfondo di piazze assolate e deserte dalle architetture classicheggianti che ricordano la Ferrara tanto cara all’artista. In Canto d’Amore, opera che fu esposta per la prima volta nel 1922 nella galleria parigina di Paul Guillaume, la testa mozzata del classicissimo Apollo romano si ritrova accanto all’enorme guanto in plastica, da poco introdotto sul mercato, come fosse la cosa più naturale del mondo.
Gli oggetti così accostati (un pezzo unico e un pezzo fatto in serie) perdono ogni credibilità, ogni aderenza col reale, e vanno quindi a formare delle “visioni”, come non a caso sono state definite le scene dipinte da de Chirico.
Il revival dell’antico viene qui estremizzato non meno che nell’opera di Marcel Duchamp, con lo stesso gusto dell’ironico teso alla desacralizzazione dell’arte. Ma se nel francese l’ironia porta a risultati vitalissimi e divertenti, l’arte di de Chirico ci porta più a meditare che a sorridere.
La solitudine immanente delle piazze, il modo implacabile in cui sono illuminate da un sole che non compare mai eppure si lascia indovinare dalle strane ombre che produce, gli oggetti rappresentati come attori messi lì a recitar se stessi senza copione, rendono ogni cosa visibile inaspettatamente greve e oscura.
La mancanza totale di senso nelle cose è restituita con una sottigliezza violenta, con una compiaciuta ironia mascherata dal ricorso all’accademia del disegno e della resa pittorica. Metafisico non è quindi il significato che va cercato oltre le apparenze, ma è il modo stesso di riprodurre la realtà, restituita dall’artista letteralmente “al di là” di come essa si presenta. Non per tentare di spiegarla, ma per ribadirne, infine, la vacuità.
Il peso enorme di tale “rassegnazione” condurrà però de Chirico a un inevitabile cambiamento di prospettiva, che lo allontanerà sempre di più, nelle sue ultime opere, dalla speculazione, per concentrarsi maggiormente sul problema della resa della bella forma, di un ideale estetico classico privo di tensione.
Tanto che gli artisti vicini al Surrealismo, che lo avevano sempre guardato con l’ammirazione tributata a un maestro, arriveranno infine a rinnegarlo, rimproverandogli severamente di essersi rifugiato in un poco coraggioso ritorno all’ordine, in uno formalismo sterile e volutamente arretrato.

bibliografia essenziale
G. de Chirico, Memorie della mia vita (pref. di C. Bo), Bompiani, 1998.
R. Barilli, De Chirico e il recupero del museo, in Tra presenza e assenza, due modelli culturali in conflitto, Bompiani, Milano, 1974.
M. Calvesi, La Metafisica schiarita da de Chirico a Carrà, da Morandi a Savinio, Feltrinelli, Milano, 1982.
F. Zeri, De Chirico. Le muse inquietanti, Rizzoli, Milano, 1998.
N. Ubaldo, K. Podoll, L’aura di Giorgio de Chirico. Arte emicranica e pittura metafisica, Mimesis, Roma, 2003.

Giorgio de Chirico
Canto d’amore
1914
olio su tela, cm 73 x 59,1
New York, Museum of Modern Art

cristina babino

[exibart]

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