Categorie: parola d'artista

exibinterviste | la giovane arte – Adalberto Abbate

di - 20 Giugno 2003

Parlami della tua formazione.
Credo che la mia formazione sia il risultato di un insieme di eventi positivi e negativi, di discussioni e di scontri, di persone e personaggi, di cose utili e inutili, di momenti importanti e altri noiosissimi.

Più concretamente?
Non sarei stato quello che sono, se non avessi imparato da tutto quello che ho conosciuto ed incontrato fino ad ora. Non credo alla formazione da istituzioni scolastiche ma alle parole ed ai ricordi della guerra dei miei nonni, credo ai racconti di Bukowski, John Fante, Ammaniti, Vinci, Joe T. Leroj, a riviste come Casseurs de pub, Permanent Food, La màs bella, Uovo, ai film di Fellini, Scorzese,Tarantino, Russ Meyer, Ciprì e Maresco, alla musica dei Nirvana, Miles Davis, C.S.I., Cochi e Renato, Kruder & Dorfmaister, Beck, Air Fish

Non credi a nessun artista visivo?
Eccoli: Piero Manzoni, Jeff Koons, i fratelli Chapman, Damien Hirst, Bertrand Lavier, Franco B…

Quali sono i tuoi strumenti?
All’inizio credevo nella netta distinzione tra pittura, scultura, fotografia e altro, ma poi ho trovato l’idea noiosa, inutile e riuscivo a relazionare solo con opere non etichettabili sotto uno stile o una tendenza!
Preferisco sempre più esprimermi con diversi mezzi per descrivere concetti e raccontare la realtà da diversi punti di vista, mischiare tutto (scultura, pittura, musica, installazione, design) e fare anche molta confusione. Da un po’ di tempo sto studiando a fondo l’utilizzo dei diversi mezzi espressivi, inseguendo l’idea di un’opera totale.

Le tue opere scultoree si distinguono principalmente per le dimensioni molto contenute e per la loro forza “narrativa”. Dove prendi le tue storie?
I micromondi che pazientemente ricreo sono porzioni di spazi metropolitani (giardini, vicoli, parcheggi, autostrade, etc.) dove altrettanti micropersonaggi di plastica dipinta recitano tragedie reali e assurde dal sapore torbido metropolitano.
Le storie che racconto quotidianamente, le ricerco nel vissuto della gente che mi circonda, girando per la mia città, in viaggio o durante le chiacchierate nei locali notturni con qualche amico o sconosciuto per poi ritrasformarle in piccoli “teatrini-archivi”.
E’ quindi facile trovarsi davanti alla riproduzione in scala lillipuziana d’aggressioni, incontri, incidenti, inseguimenti, avventori, spacciatori distratti, poliziotti corrotti, stragi del venerdì sera, pedofili che adescano bambine smaliziate, contrabbandieri di carne e acqua, ma anche storie più tranquille ma non per questo meno assurde e vere.

Ti occupi anche di pittura. I tuoi quadri però, di forte sapore pop, sono concepiti più come installazione che come singoli elementi. Perché?
Tomato therapy è il nome dell’installazione pittorica alla quale accenni ed è un insieme di 400 tele che vive della stessa formula d’archivio dei micromondi e dei lavori fotografici. Le tre ricerche, possono addirittura convivere in un’unica forma installativa!
Nelle 400 tele, sono raccolte immagini e simboli e particolari che molte volte non vengono neanche notati o addirittura snobbati anche se esteticamente e concettualmente indispensabili e validi perché altamente comunicativi.
Di solito si continua ad osservare ciò che si conosce e non si fa assolutamente caso ad altre cose, molto più importanti che si hanno ad un palmo di naso.
Io non faccio altro che ricercarle giornalmente, ingrandirle, modificarle e accostarle con un certo retrogusto pop, per poi riproporle nei luoghi più disparati.
Tomato therapy nasce come terapia comunicativa d’urto dove le numerose immagini, oggetti e suoni invadono lo spazio e attaccano il fruitore.

Che reazione vuoi suscitare in chi osserva le tue opere?
Mi piacerebbe suscitare la stessa reazione che provocherebbe in me la visione di un banchetto traboccante d’immagini. Ingordo ne studierei le forme e i significati, chiedendomi poi i perché degli accostamenti, andrei oltre la presentazione addolcita propria del pop, ormai giustamente onnipresente, per ricercarne il marcio e attribuendone alla fine nuovi concetti.
Ecco quello che vorrei suscitasse, ecco come vorrei che interagissero.

Da qualche tempo sei tra i promotori di Area, contenitore per l’arte contemporanea, uno spazio molto interessante nel centro di Palermo. Perchè un artista sceglie di promuovere anche eventi culturali?
L’artista ha una sua funzione sociale, non deve mai essere marginale o di comparsa ma deve creare spazi e muoversi in sinergia con le idee.
Molte volte invece accade che l’artista assiste dall’esterno ai giochi e alle zuffe dell’arte, della politica, del mondo e funge solo da innocuo osservatore che aspetta che qualcuno gli faccia dire la sua.
La Sicilia poi, possiede una realtà artistica, ed ha molto da “urlare”, ma non è “cool” per i circuiti artistici italiani, tanto che ancora oggi ne è isolata.
E’ raro infatti vedere artisti e curatori, critici e giornalisti passare di qui incuriositi dal dinamismo artistico siciliano, così abbiamo pensato di creare noi uno spazio capace di proporre nuove regole e idee per il grande gioco dell’arte.

Quali sono i tuoi prossimi impegni, e a cosa stai lavorando adesso?
Vorrei invadere al più presto con Tomato therapy uno spazio in Italia e all’estero, contemporaneamente lavoro a due nuove installazioni foto-dinamiche e alla ricerca d’artisti per collaborare alla creazione di una rivista.

bio
Adalberto Abbate è nato a Palermo nel 1975 dove vive e lavora. Mostre personali: 2002 interno12, appartamento di Paolo Angelosanto, Roma;h Preparatevi al peggio, con Marco Prestia, Fiorucci Megastore, Milano; 1999, Albergo Fiumara d’Arte, Castel di Tusa. Mostre collettive: 2001 e 2000 Il Genio di Palermo, galleria Artecontemporanea e Cantieri Culturali della Zisa, Palermo, a cura di P. Nicita e I. Parlavecchio; 1999 La casa, appartamento di Mauro Nicoletti, Roma, a cura di A. Galletta; 1998 10 artisti in cantiere, Cantieri Culturali della Zisa Palermo; Outlook Express, Via Farini e Galleria Gian Calra Zanutti, Milano, a cura di A. Galletta.

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