Botto&Bruno.Un binomio, anzi, un’unica identità artistica. Non vi ha dato problemi lavorare insieme?
E’chiaro che presentarsi come coppia crea qualche problema in più. Ma nel tempo siamo riusciti a raggiungere un equilibrio che ci ha consentito di andare avanti, nonostante le difficoltà.
C’è ancora molto il mito dell’unicità, della singolarità dell’artista, una visione romantica. Ci siamo sempre chiesti come mai nel cinema e nella musica la collaborazione non è mai stata un problema mentre nell’arte viene considerata un’anomalia.
Voi siete entrambi di Torino. Come è stato e come è il vostro rapporto con la città e con la periferia della città? Quanto ha influito sulla vostra formazione?
Siamo cresciuti tutti e due in periferia. Quando eravamo adolescenti volevamo andarcene.
Le periferie allora, come oggi,erano piene di problematiche e quella di Torino non era da meno: ti sentivi cittadino di serie B.
Per fare qualsiasi cosa,come vedere un film, bisognava spostarsi verso il centro della città perché in periferia non c’era quasi nulla.
Poi però ci siamo resi conto che nel continuo attraversamento degli spazi urbani abbiamo recuperato un senso nomadico dello spazio che ci ha permesso di accettare la periferia e di capirla .
Qual è stato il vostro percorso di avvicinamento all’arte?
Abbiamo frequentato tutti e due l’Accademia, ma dopo tanta pittura studiata abbiamo sentito il bisogno di disintossicarci e ci siamo avvicinati alla fotografia, pur essendone profani. In un certo senso abbiamo brutalizzato il mezzo fotografico, ma questo ci ha permesso di reinvertarlo e di ricostruirlo in modo personale.
Nella Torino dei primi anni ’90 la scena era ancora dominata dall’arte povera e a noi veniva spontaneo rifiutare quello che ci stava intorno. Finiti gli studi abbiamo lavorato diversi anni prima di esporre durante i quali abbiamo cercato di raggiungere una sintonia formale dalla quale sono nate le nostre prime opere.
Se i contenuti dei vostri lavori sono rimasti gli stessi, quello che è cambiato, nel corso degli anni, è stato il modo di risolverli e di dar loro uno sviluppo coerente…
E’ vero.Le nostre prime immagini erano in bianco e nero e ritraevano periferie urbane accompagnate da scritte estratte da titoli di giornale. Poi a poco a poco, le immagini nate in piccole dimensioni sono diventate grandi e hanno ricoperto interamente le pareti delle sale espositive. E’ stata una naturale evoluzione. Le prime figure umane a popolare i nostri lavori compaiono nel 1997. I nostri personaggi non comunicano fra loro, ma non sono in conflitto con il luogo in cui sono inseriti. I soggetti siamo di solito noi, ma con i volti nascosti perché non vogliamo che lo sguardo ridimensioni il paesaggio a pura scenografia: tutto deve essere ugualmente importante.
Come nascono i non-luoghi dei vostri lavori?
Abbiamo iniziato fotografando i residui, gli scarti abbandonati lasciati dall’uomo. Poi poco alla volta abbiamo intuito che intorno ad essi si sviluppava un paesaggio tutto da scoprire. Ora le foto le scattiamo nelle periferie non solo italiane ma anche europee:di solito ritraggono scuole, edifici che sembrano dismessi ma che in realtà sono ancora attivi. Le immagini riflesse nelle grandi pozze d’acqua che spesso compaiono oggi nei nostri lavori, invece, sono in realtà finestre aperte su altri luoghi.
La fotografia ci permette di avere un impatto immediato: la pittura la usiamo durante l’assemblaggio delle immagini per correggere piccole imperfezioni dovute alla combinazione dei frammenti. Il risultato è estremamente realistico; il nostro intento è di manipolare la realtà per riuscire a restituirla in tutta la sua complessità.
Avete dei modelli cui ispirarvi?
Ci piace partire da Pontormo e da Mantegna per l’impostazione prospettica e la costruzione delle scene e, attraverso il cinema di Frears e di Loach, arrivare alla musica di P.J Harvey, Sonic Youth, Rem. Infatti, i titoli delle nostre opere o le parole che compaiono nelle immagini sono estrapolati dagli stessi testi musicali.
Dove stanno andando Botto&Bruno oggi?
La nostra è una ricerca che vuole essere il più possibile completa: vorremmo indagare nuovi mezzi espressivi come per esempio il cinema. Ci piacerebbe infatti realizzare un breve cortometraggi; per ora stiamo realizzando dei piccoli story-board .
In fondo noi abbiamo un approccio al lavoro simile a quello di un regista a partire dalla ricerca delle location, dalla scelta delle figure e degli oggetti della scena. Lavoriamo, come fa il cinema, montando insieme tanti elementi per arrivare ad una soluzione unitaria.
Purtroppo lavorare con il cinema vuole dire avere grossi finanziamenti che in Italia non ci sono. Nell’arte italiana girano ancora pochi soldi per riuscire a realizzare progetti complessi, anche se comunque rispetto a pochi anni fa le cose sono cambiate in meglio. Quello che continua a mancare sono i momenti di incontro, le occasioni nelle quali sviluppare i progetti.
L’ultima Biennale è stata davvero interessante e avete partecipato anche voi…
Il successo della Biennale si deve soprattutto a Szeemann, un personaggio carismatico che è molto amato dagli stessi artisti, con i quali ama instaurare un rapporto personale.
Quando ci ha proposto di partecipare all’evento è venuto nel nostro studio per discutere il lavoro da presentare. Lo spazio dell’ingresso delle Corderie era senz’altro uno spazio difficilissimo anche per quanto riguarda il montaggio ma ne è valsa sicuramente la pena.
Com’è invece la situazione all’estero?
Ci sembra che all’estero la situazione sia un po’ diversa, gli artisti sembrano essere più comunicativi tra di loro. Purtoppo l’arte italiana continua ad essere poco conosciuta fuori dal nostro paese ed un artista è costretto ad emigrare se vuole che il proprio lavoro venga visto da un pubblico internazionale. Infatti New York è l’esempio della città dove tutto è possibile anche se però è una realtà molto difficile. Eravamo a New York l’11 settembre: quella terribile esperienza ci ha sicuramente cambiato; ora affrontiamo le cose con più calma e tranquillità.
A cosa state lavorando ora?
Stiamo preparando una grande installazione e uno story -board che presenteremo nella nostra personale a Colonia e un nuovo video che sarà proiettato in una mostra a Bolzano all’Accademia di Design.
Un’ultima considerazione: i vostri lavori, soprattutto i wallpaper, sono legati allambiente che li ospita. Finita una mostra, essi vengono strappati e non sono più utilizzabili: una scelta rischiosa…
Le nostre installazioni vengono sistematicamente distrutte perché nascono in uno spazio e per quello spazio. Confrontarci con luoghi diversi e creare degli ambienti ci permette ogni volta di superare un limite ma alla fine di ogni esperienza sappiamo di aver fatto un passo in avanti.
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Bio
Gianfranco Botto (Torino, 1963) e Roberta Bruno (Torino, 1966) vivono e lavorano a Torino.
Hanno partecipato alla 49 Biennale di Venezia, Platea dell’Umanità (2001).
Tra le principali mostre personali e collettive: Under my red sky, Sottozero, Palazzo delle Esposizioni, Roma 2000; My song goes down into the water, galleria Alfonso Artiaco, Pozzuli (Na) 2000; Suburb’s Day, Fondazione Teseco per l’Arte, Pisa 2000; Paesaggi invisibili, Palazzo delle Papesse, Siena 1999; Triennale Photomedia Europe, Milano 1999; My beautiful box galleria Alberto Peola, Torino 1999; Wall Paper, Bullet Space, New York 1997
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Intervista davvero splendida, complimenti a Cinzia Tedeschi ed ai due artisti che hanno dimostrato grande consapevolezza ed entusiasmo.