Categorie: parola d'artista

exibinterviste | la giovane arte – David Fagioli

di - 14 Marzo 2003

L’impressione che si ha, negli ultimi anni, è che la scultura sia messa un po’ da parte, poco considerata, che siano privilegiate altre forme d’espressione. Qual è il tuo punto di vista di scultore?
Diciamo che altre forme espressive hanno un veicolo, le due dimensioni, che è di più facile assimilazione, non pongono il problema della fisicità che è fonte di nuove domande per il fruitore. La scultura negli ultimi anni è più ostica proprio per quest’approccio fisico che riconduce alla realtà oggettiva – che forse c’inibisce un po’ – e poi ha un linguaggio un po’ più difficile all’apparenza, mentre a mio avviso è assolutamente il contrario.
Io mi trovo avvantaggiato rispetto ad altre forme artistiche perché la scultura non deve affrontare la problematica dell’immagine: il lavoro di un fotografo, di un pittore, così come quello di chi lavora con il digitale o il video, è accostabile ad altre immagini che possono sembrare simili proprio per le due dimensioni, basta pensare ai grandi manifesti che usa la pubblicità.
La scultura non ha queste “concorrenti”, è unica.
Io mi ritaglio uno spazio, non su una parete, me lo ritaglio proprio fisicamente, occupo uno spazio fisico.

Quindi la tua scelta è legata proprio alla terza dimensione?
Ho scelto la scultura perché con questa ho una facilità tecnica e di pensiero, e non è che abbia scartato le altre forme espressive, solo che non me le sento. Non escludo che userò altri media, ma come forma mentale prima che formazione culturale, mi sento scultore, sento che debbo produrre volumi.
Adesso lavoro anche un po’con la fotografia, però nei pochi lavori fotografici o c’è una mia scultura, o c’è una mia idea di scultura, così, ad esempio, ponte Milvio diventa un grosso profilo di uno di miei personaggi.
Tra l’altro amo molto l’architettura, che infondo è una scultura gigante… ecco, la fotografia mi aiuta ad ingigantire un desiderio di manifestare.

Nei tuoi lavori c’è una costante, un elemento che ritorna sempre, che è la figura del coatto romano. Perché questa tipologia?
Tutti questi coatti tecnoclassici, come li chiamo io, sono i personaggi a me più vicini.
Mi piace esprimere quello che penso proprio attraverso le situazioni e gli strumenti che mi sono vicini, quindi, per questo, anche la scelta della scultura bianca che rimanda alla romanità.
E il coatto m’interessava proprio perché, per questa fisiognomica molto marcata, mi dava un’opportunità plastica di esprimermi, di dire anche altro.
Uso tutto il repertorio della scultura del ventennio, la scultura usata fino a 50 anni fa da tutte le dittature e che veniva utilizzata per affermare un potere, per affermare invece una debolezza. Infondo è anche un paradosso perché uso la scultura bianca, che può essere molto rassicurante nel suo riferimento alla classicità, ma i miei soggetti non lo sono affatto. Il gioco è anche nell’utilizzare un medium apparentemente tranquillizzante per dire cose che sono d’urgenza drammatica, non certo per rappresentare un’idea di bellezza.

In tutto questo però hai usato la parola gioco, e questo gioco si legge talvolta nel tuo riferimento ai fumetti, o nell’ironia di certe rappresentazioni di realtà quasi tragiche…
L’ironia fa parte di questo mio mondo della scultura, si confronta poi anche con la pop art, con tutto quello che è avvenuto nel XX secolo. Ci sono miei lavori in cui l’ironia compare, ed anche il fumetto, ma alla fine un fumetto diventa comunque scultura.

In questo tuo richiamo al XX secolo, riconosci dei maestri?
Brancusi, in assoluto. E poi Pino Pascali, in cui c’è una forte componente di gioco e di dramma: costruiva armi con materiali di riciclo, enormi giocattoli drammatici appunto. Io quando sto di fronte ad un suo lavoro, soprattutto alle armi, ci trovo qualcosa di struggente.

Che materiali usi? Quali quelli che prediligi?
I materiali vanno dal gesso al ferro alla resina.
Non ho interesse per un materiale in particolare, ce l’ho quando questo mi consente di fare delle cose: il materiale asservito all’idea.
Il mio è un discorso di volumi, dopo di che scelgo il materiale sulla base del lavoro, se deve esser più o meno leggero o resistente, se deve stare all’aperto, o deve avere un certo tipo di colore o di verniciatura. Vero è che talvolta i materiali, mi suggeriscono delle idee, ma idee tecniche, nient’altro.
Io non sono l’immagine dello scultore impolverato, sudato, con lo scalpello, ma faccio le forme, poi i calchi e ci gioco, gioco sulla riproduzione, uso mezzi che nella scultura sono sempre esistiti come mezzi tecnici: il calco, la copia, il negativo, il positivo.

A che cosa stai lavorando adesso?
Sto lavorando ad una mostra a Monopoli e poi c’è in progetto una collettiva che sta organizzando Lorenzo Canova a Bagnoli sul ventennale della morte P. Dick.

bio
David Fagioli è nato nel 1968 a Roma dove vive e lavora.
Numerose le collettive a cui ha partecipato, tra cui Arte Roma presso l’ex Mattatoio Testaccio – Roma 1998, Oltre Bernini, I.T. Bernini – Roma 2000, WWW. Plot. Art presso la Galleria Arturarte, Nepi (VT) e Alto Volume Corporale, Palazzo Bice Piacentini, San Benedetto del Tronto.
Tra le sue personali ricordiamo Olimpico, Explorer Coffee Gallery – Roma 1996, Una botta di restauro, Museo civico di Gallese (VT), e la recente Tysonovicino, Galleria Maniero – Roma 2002.

federica la paglia

exibinterviste_la giovane arte è un progetto editoriale a cura di paola capata

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