Come sei diventato artista? Cosa è stato determinante? In questo momento della tua vita stai facendo quello che hai effettivamente scelto o fai questo lavoro per cause fortuite?
La scelta di fare l’artista per me è consequenziale al piacere sensitivo e intellettuale di fare e pensare che avevo riscontrato nell’arte. E’ la forma di conoscenza in cui m’identifico. Anche se non provengo da una famiglia interessata particolarmente all’arte (una semplice famiglia italiana meridionale immigrata in Germania negli anni sessanta) fin d’adolescente, ho frequentato delle persone intensamente implicate nell’arte contemporanea. Una ex-allieva di Beuys è stata una specie di madrina artistica per me. Mi sento fortunato per questo ma di certo queste cose non accadono per caso. Quindi è fin da adolescente che cercavo prendere coscienza di che cosa sia questa forma molto concreta della percezione. Oltre a disegnare e a fare delle costruzioni iniziavo a studiare libri su artisti come Michelangelo e Leonardo e visitavo delle mostre. Ogni mio interesse ed attività (siano esse per la natura, sportive, scientifiche o fantascientifiche) alla fine culminava in una riflessione di tipo artistico. Mi interessava il processo creativo che identificava sia in processo formale che in quello mentale. Partendo da questo principio ho scelto la mia formazione studiando filosofia in varie università (Stoccarda, Firenze, Milano) e seguendo per ragioni d’affinità artistiche le lezioni di Luciano Fabro all’accademia di Brera.
Più di fare quello che ho scelto direi che sto facendo quello che effettivamente sono. Le scelte in sostanza sono in funzione all’essere.
Solitamente spetta ai critici sintetizzare e descrivere la ricerca di un artista. Se dovessi tu, in tre righe, definire la tua arte come faresti?
Inazitutto penso che ci dovrebbe essere un dialogo di scambio sostanziale tra artista e critico. Di scambio teorico, ma anche pratico (citerei l’esempio i dialoghi di Carla Lonzi con alcuni artisti). Poiché tra le cose più interessanti che ho letto erano scritti da artisti come gli scritti di Robert Morris, quelli di Giulio Paolini e di Luciano Fabro fino agli scritti di de Chirico o dell’artista romantico tedesco dell’800 Philipp Otto Runge non vedo il motivo per cui l’artista non debba rendersi trasparente (a sé ad altri) attraverso la scrittura.
Siccome ogni mio lavoro ha la sua propria specificità generalmente le unirei con seguente riflessione. Nel momento in cui osservo una cosa creo una percezione del tempo. L’osservazione si costituisce come presenza temporale corporea. Anche se l’opera ad un certo punto è conclusa non vi è una caratteristica statica e finita bensì una forma aperta, un organismo in crescita – forma energetica. Poco tempo fa ho scritto che la forma dell’opera contiene tutto il gioco del processo artistico in forma energetica, intendendo per “gioco” ogni spostamento, movimento, processo riflessivo, immaginativo, intuitivo. La psicologia del processo artistico mi sembra l’enigma umano più affascinante. Per questo lo considero come sostanza e non strumento progettuale o semplicemente come processo per ottenere un risultato. Tale processo è teso verso una cristallizzazione sensibile/intellettivo. Un istante di grazia estetico in un flusso continuo. Vedo tale processo in quanto processo artistico come definizione per eccellenza dell’esperienza. L’esperienza fondamentalmente è l’esperienza del tempo e dunque oserei dire che l’esperienza coincide con la percezione di una corporeità
Un tuo pregio e un tuo difetto nell’ambito dell’arte.
Pregio è difetto sono confezioni del momento quindi non sono parametri con cui invito ad orientarsi. Esempio: che producevo delle riflessioni teoriche sul mio lavoro, qualche anno fa era visto come difetto, cosa che ora si sta rivelando un pregio. Poi, forse una certa lentezza data da un tempo contemplativo, esitazione – prova – riflessione – dubbio, da cui magari riesco a produrre qualche certezza. Avere delle certezze è stato meno popolare che non averne – non ne ero mai d’accordo! (Meno male!!).
E nella vita?
Rispondo tra 40 anni, nel frattempo ci penso.
Una persona davvero importante per il tuo lavoro?
In un contesto di lavoro non potrei isolare realmente una persona importante dato che si crea una maglia di dialoghi. Nonostante ringrazierei innanzitutto Francesca Kaufmann per il percorso fatto insieme fin ora (ed in futuro), Tucci Russo per la possibilità che mi dà e Andrea Bellini per i dialoghi e il lavoro teorico.
Sei soddisfatto di come viene interpretato un tuo lavoro? Chi l’ha interpretato meglio e chi invece ha preso una cantonata? Che rapporto hai con i critici e con la stampa?
Le interpretazioni si compensano e sono riuscite quelle che nel loro punto di vista specifico sono coerenti e concreti: la lettura fenomenologico di Andrea Bellini lo trovo molto aderente al mio lavoro (“overture” su Flash Art e su SculptureMagazine). L’aspetto linguistico e strutturale del lavoro forma la base per ogni interpretazione. Il testo di Giacinto di Pietrantonio dà una lettura di un atteggiamento di base sul catalogo della mostra P.S. 1. Come lettura contenutistica mi ha colpito la recensione della mia mostra personale “tempo drogato” scritta da Gabi Scardi su Flash Art. Sul catalogo della mostra “Leggerezza” alla Lenbachaus di Monaco Marion Ackermann e Pirkko Rathgeber fanno una buona analisi storica e analitica.
Ho trovato ridicola la recensione della mostra del P.S.1 nel 2001 a Roma su Flash Art. L’autrice (non ricordo più il nome) di me ha solo visto coriandoli bianchi sparsi (in verità avevo esposto “effervescente” e “bandiera “metabolizzata”!). Critici che altezzosamente non s’impegnano a vedere l’opera esposta dovrebbero essere banditi da questa professione.
Che rapporto hai col luogo in cui lavori. Parlaci del tuo studio…
Fino a pochi giorni lavoravo a casa. La sensazione di condividere la vita quotidiana con i lavori in corso poterli guardare in qualsiasi momento, sentire il processo artistico parte inestricabile dell’abitare è una condizione intima in cui sono nati quasi tutti miei lavori. Ora che i lavori stanno diventando più ingombranti ho preferito prendere uno studio vicino a dove abito. Dato che questo lato intimo con il lavoro è per me un fatto acquisito, ho bisogno di uno spazio neutro di puro lavoro anche di distacco. Ogni fase del lavoro richiede la ridefinizione del contesto.
Quale è la mostra più bella che hai fatto e perché?
Ritengo che fin ora sia stata la mia personale nella rassegna di present/future durante artissima 2002. In quella mostra sono riuscito molto bene a concentrare la visione del mio lavoro. I lavori esposti quelli recenti come “sugar no sugar molecule” contrastato dalla vaporosità del lavoro “what does your soul look like II” e meno recenti come “attimo” con i suoi scarti circolari che formava il lavoro “drops” si compensavano si fisicamente sia processualmente e con ciò contenutisticamente. L’animazione “sugar no sugar metamorphosis” formava un flusso originario di microgesti scultorie, in senso di flusso d’idee, da cui le grandi sculture hanno preso forma mentre la scritta parole ‘sugar’ e ‘no sugar’ alterate in una successione irregolare che scorreva intorno sul muro all’altezza d’occhio delle trasformava l’esperienza della materia in parole sussurrate. Anche la mia dichiarazione presentata in quella occasione mi sembra chiara: La realtà mi sembra nascondere la sua possibile dimensione temporale dinamica. La percezione e la concezione della realtà nel tempo diventano fluide forme del pensiero in azione. Non voglio documentare, né illustrare, né proiettare bensì contemplare. Il mio lavoro non è la materializzazione del mondo com’è, ma di una nuova prospettiva per contemplarlo: un cubetto di zucchero, un granello di sale o un seme diventano stimolo di una realtà creativa. Il mio lavoro amplifica questi stimoli che creano la relazione tra la cosa guardata e la cosa toccata, tra sensazione e nominazione, tra la parte e il tutto. Ogni particella di spazio vuole esistere concretamente in una sorta di temporalità di Zenone: si estende, cresce, si contrae e si trasmuta nello stesso istante per creare un corpo metamorfico. “tutto scorre”.
Quanto influisce la città in cui vivi con la tua produzione? E’ indifferente? Preferisci girare di città in città o lavorare sempre nel solito posto?
Il mio processo in parte è composto di une riflessione astratta per cui il luogo sembra non dovrebbe influire sul lavoro dall’altra parte ha una componente psichica, un certo stato d’animo, che credo assorbe la peculiarità del luogo in cui vivo a più il luogo nella sua temporalità in relazione con me che lo vive.
Ci sono tempi in cui giro e viaggio e altri in cui non mi muovo per provare e sviluppare nuovi spunti di lavori. Tutte e due le fasi li vedo inestricabilmente connesse al mio processo artistico.
Per lavorare ho bisogno di un luogo in non temporaneo e fuggente, non realizzo i miei lavori al computer per cui potrei lavorare viaggiando da nomade, né li faccio realizzare per ordinazione. Devo sperimentarli, farli, viverli, studiarli tutti gli elementi perciò il lavoro si definisce come esperienza.
Non sono la persona adatta per speculare sulle dinamiche del sistema dell’arte per cui un artista è reso una star né mi interessano particolarmente se non come fenomeno in sé. Posso elencare alcuni giovani artisti italiani di cui stimo il lavoro come Francesco Gennari, Paolo Piscitelli, Pier Paolo Campaniani, Pietro Roccasalva, Luca Tresvisani, Diego Perrone o Giuseppe Gabellone. Penso che quest’ultimo sia già abbastanza emerso nella scena internazionale. Sarebbe un errore fatale se pensassimo che ogni lavoro debba emergere nel modo in cui è emerso quello di Cattelan o della Beecroft. Ma farei una netta distinzione fra loro due. Mentre Cattelan è emerso nel ruolo del situazionista tragico plateale (che esprime una certa immagine dell’italianità) è la caratteristica glamour della Beecroft a renderla così mass-mediale. Ogni lavoro emerge nel modo in cui è costituito.
La politica culturale italiana e il sistema privato dell’arte. Per un giovane artista cosa significa rimanere in Italia, produrre, investire, costruire qui?
Un giovane artista deve viaggiare e, se ha l’occasione, fare l’esperienza all’estero questo per la necessità dialettica che comporta il nostro lavoro e anche per relativizzare delle convinzioni e punti di vista che sembrano determinante quando viste dall’interno. In nessun luogo si po’ essere passivo. Ma la base di questo è il lavoro non la promozione. Premesso questo penso che un giovane artista possa benissimo lavorare in Italia. L’infrastruttura del sistema dell’arte italiana mi sembra inestricabilmente connessa a quella internazionale. Certo, accanto all’impegno del privato ci sia da augurare che in Italia sia mobilitato più intensamente l’impegno istituzionale.
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