Categorie: parola d'artista

exibinterviste – la giovane arte | Luca Stoppini

di - 17 Giugno 2005

Qual è stato il tuo percorso? Le scuole, la formazione?
Il liceo scientifico e due anni di architettura. A sedici anni ho iniziato a lavorare, prima come disegnatore per tessuti, poi come grafico pubblicitario. Dopo un’esperienza in pubblicità mi sono stancato. Così andai a far vedere il mio lavoro da Vogue, perché cercavano un grafico.
Avevo vent’anni e dopo un colloquio lasciai l’università. Di giorno lavoravo in agenzia e la sera -e la notte- in redazione. La più bella fotografia del mondo, era il massimo. Lasciai tutto il resto nel 1981 per concentrarmi solo su Vogue. Poi lavorai per il teatro dell’opera e della prosa di Parma. Nel 1991 sono diventato direttore artistico di Vogue Italia, poi di Uomo Vogue poi di Casa Vogue. E poi…

La tua opera è caratterizzata da un lungo processo produttivo. Come si svolge?
Parto da immagini di riferimento, dalla volontà di raccontare una storia, da un dettaglio. A quel punto ho un particolare che mi racconta un’emozione, un’immagine che sarà consequenziale ad altre immagini che ho trovato. E tutti questi riferimenti faranno parte di un’immagine sola che verrà maneggiata digitalmente. Come la pittura, con la stessa attesa, la percezione del colore ad olio, che riposa. Oppure come la musica.

Un contorno, un frame, la cornice è un elemento decor ativo che abbraccia l’opera pittorica. Quasi un altare sul quale si celebra. Fa parte della Natura Morta.
Il lavoro sulla cornice parte dall’andare a scovare presso rigattieri delle vecchie specchiere. Recupero gli oggetti, tolgo lo specchio; poi ribalto le specchiere e le assemblo alle pitture. Si tratta di andare a lavorare sull’immagine che si adatta allo spazio.
Inoltre vorrei che le mie opere non fossero  appese al muro, ma appoggiate, accatastate. Io recupero molti materiali, li lascio invecchiare, li abbandono, poi li riprendo per lavorarci. E’ un work in progress. La cornice viene studiata in funzione dell’opera -e viceversa- per cui una si adatta sull’altra: l’opera si installa dove ha la possibilità di entrare.

Lo specchio e il suo ribaltamento. Dai coniugi Arnolfini di Van Eyck a Pistoletto. Quando tu recuperi una specchiera ti poni dietro ad essa, dopodichè la direzioni e lo specchio coglie schegge di paesaggio. Una porzione di paesaggio che la cornice-specchiera ritaglia, e sulla quale tu intervieni, ne fai il board, il frame! Cominci col ritaglio dell’immagine, pratica lavorativa, e prassi compositiva.
Lo specchio è il gioco. E’ anche introspezione ma è essenzialmente un gioco, come quelli dei film di Buster Keaton o Fred Astaire. Lo specchio è la contaminazione più assoluta, quella dello spazio.
Feci un lavoro a Firenze, insieme a cinque stilisti. Avevo a disposizione il cortile degli Uffizi dove ho costruito cinque cubi di specchio. Così si diventava subito parte di quella straordinaria architettura. In più si creava un’altra prospettiva, per cui il campanile di Palazzo Vecchio era immerso nell’Arno. La contaminazione impressionante dello specchio con la luce.

La pittura sulla specchiera. Tutela dall’allestimento?
Una sovrapposizione di storia, perché anche lì c’è un sapore, c’è una storia. La cornice era un pezzo di vita di qualcun’altro. L’accumulo e la precarietà. Significa portare nel tuo spazio un pezzo di vita degli altri, è come spartirla, e poi ti arricchisce. Il pavimento sporco è il ricordo di un bicchiere di vino.
Io quando espongo porto il mio mondo in una galleria. Ecco perché le fiere sono mostruose. L’arte è basata su un processo di contestualizzazione di qualcosa in un altro luogo. Quando prendi un’opera e la porti alla fiera è come tagliarti la gola.

Insofferenza nei confronti del sistema dell’arte? Da operatore ora ne sei attore, anello: come ti poni?
Io sono molto giovane come artista. La Biennale di Tirana è stata la mia prima esperienza, bellissima. La mostra a New York. Poi c’è stata l’esperienza del libro (Untitled (Luca Stoppini), Skira editore) dove ho lavorato con Mariuccia Casadio, Marcello Smarelli, Helmut Lang.
Il mio lavoro è la vita, per cui non è facile essere in accordo. Ora c’è un dialogo, un rapporto forte con Sergio Risaliti. Il rapporto con il curatore per esempio comincia con un ‘buongiorno-buongiorno’ ma poi ti metti in mutande dopo dieci minuti. C’è il curatore capace di spiegarti il perché di determinate scelte e c’è quello invece incapace di fronte al tuo lavoro. Comunque di tutti, anche di quelli con cui ho avuto rapporti più difficili, mi è rimasto qualcosa.
Io non riesco a non investire tutte le energie. In nessun processo lavorativo. La mia capacità però è quella di non metterla sul personale. Sul lavoro posso scannarmi con una persona, finito il lavoro è un’altra cosa.

La prossima mostra è a Quarter, il Centro Produzione Arte, diretto appunto da Sergio Risaliti.
Il lavoro va bene, la gente è interessata, questa opportunità è straordinaria. Sono entusiasta. L’invito di Sergio mi ha fatto molto piacere, lo spazio è bellissimo, è una sfida fantastica. Esporre con Enzo Cucchi, Marcello Maloberti, Rinko Kawauchi (con cui ho lavorato per un progetto per Cartier).

Intervista a cura di M2

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La mostra a Firenze presso Quarter

la rubrica ‘exibinterviste’ è a cura di
pericle guaglianone

[exibart]

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