Categorie: parola d'artista

exibinterviste – la giovane arte | Luigi De Simone

di - 19 Ottobre 2007
L’hai trovata una definizione per il tuo lavoro?
Non saprei definire un bel nulla! Per me definire è portare a compimento qualcosa, col rischio di chiudere troppe finestre. In quello che faccio c’è un coacervo di naturalismo e irrazionalità, realismo e simbolo… A volte devi infilarti in una falla della realtà per stravolgere l’abitudinario, disfare trama e ordito della logica. Mi interessa la liberazione del desiderio dalle griglie codificate della società. Credo inoltre che nel mio lavoro siano fondamentali le pulsioni inconsce: è un modo di agire apparentemente schizofrenico, come quando lavoro ai collage, epifanie che poi si coniugano a titoli che ne riflettono l’origine.

Ti va di raccontare qualcosa di personale?
Fumo tanto tabacco. Ultimamente sono irascibile e non faccio più apnea. Chi ha praticato apnea sa cosa significa scendere nel blu e desiderare di continuare, finché capisci che devi risalire per evitare l’ebbrezza da profondità: una soglia sottile, che ti mette davanti al limite.

Come sei diventato un artista?
Nell’immancabile libreria del salotto di casa, ricordo un’enciclopedia medica in quattro volumi con una serie in bianco e nero di fotografie orrende e un libro di Claude Roy, Le arti selvagge, con riproduzioni a colori di maschere, sculture e pitture arcaiche. Rimasi impressionato da questa finestra transdomestica: nella mia fantasia il salotto diventò una giungla! Iniziai a disegnare con una penna a inchiostro nero, una Kraft (credo si chiamasse così): teste filiformi fatte con un’unica linea continua… Mostruose, tanto da suscitare grande interesse nell’ambito familiare. Presto fui mandato in analisi.

Anche la storia dell’arte canonica può dare effetti simili?

Verso i quattordici anni fui stordito da tutto quanto Picasso aveva fatto nel periodo rosa. Nella mia camera da letto c’era un poster enorme: Le tentazioni di Sant’Antonio di Dalì… Ho osservato senza mai stancarmi Antonello da Messina, Vermeer, Hokusai… Contemporaneamente amavo la scultura dei Dogon, del Benin, l’arte precolombiana e quella oceanica. Amavo soprattutto viaggiare di continente in continente, con una piccola mappa comprata in cartoleria. Ora più che all’arte guardo alla realtà e alla realtà dei sogni. L’arte che guarda all’arte produce maniera, e la maniera non m’interessa.

Sei soddisfatto di come viene recepita l’arte contemporanea?

Generalmente noto che le persone hanno paura di dire la loro su un artista o su un lavoro, se prima non si sono in-formate. E invece l’informazione è un modo per non avere idee proprie nello specifico. Sarei molto soddisfatto se qualcuno, interpretando il mio lavoro, mi rivelasse qualcosa che mi era sfuggita o non avevo considerato. Insomma la critica, come l’arte, deve almeno sorprenderti, fuorviarti, portarti lontano dal salotto di casa. Altrimenti sono sempre i soliti rapporti di condominio!

Nel concreto che rapporti hai con gli addetti ai lavori?
“Rapporti occasionali”… con alcuni prendo le dovute precauzioni, con altri mi lascio andare fino all’eccesso. Tendenzialmente sono curioso di sapere come i critici, ma anche il pubblico in genere, accolgono un mio lavoro. Con la stampa dipende da quanto sono rilassato e ben disposto a colloquiare… Mai fare affermazioni prima di essersi ben rilassati, magari dopo aver bevuto un Pernod!

Attualmente chi è più sintonizzato su ciò che fai?
In questo momento credo che Gigiotto Del Vecchio abbia intuito quali siano le potenzialità del mio lavoro. Ad ogni modo per un’interpretazione profonda ci vuole tempo, frequentazione… bisogna saper attendere.

Vuoi fare altri nomi?
Le persone più importanti per me sono quelle con cui passo più tempo nell’arco di una giornata, perché sono assolutamente in balia degli umori di chi mi circonda… Questa cosa è terribile! Importante, comunque, è chi paga bene!

Come vivi il rapporto con i tuoi galleristi?
È un compromesso continuo, a volte con profonda noia, altre con grande esaltazione. È importante capire quando è il momento per affondare o schivare un colpo, ma solitamente non faccio calcoli o, se li faccio, sono sempre sbagliati. Dopo aver inaugurato una mostra, vorrei farne subito un’altra… Ma non sempre chi mi ha affiancato ha colto il senso di questa mia velocità.

Che mi dici di Berlino?
Berlino è la città che, insieme a Praga, amo più di tutte, ma non so se ci resterò ancora per molto. Credo ci sia bisogno di scoprire nelle pieghe e negli anfratti di ogni luogo qualcosa di misterioso: sotto questo aspetto Berlino è una città piena di cupo mistero, piena soprattutto di fantasmi… La cambierei solo con New York: lì mi sono sentito a casa… Comunque vivo tra Berlino, Palermo e Napoli.

Una mostra da non dimenticare?
La prossima: credo più a quanto ancora non è e tendenzialmente non m’innamoro mai di quello che faccio. Solo se è passato molto tempo da una cosa, mi dà gioia rivederla.

Chi secondo te ha delle chance per emergere sulla scena internazionale?
A parte me? Chi produce carta moneta, la fa girare e può inflazionarla.

Un intoccabile assolutamente sopravvalutato?
Un’artista a caso: la Abramovic. Le ultime performance sono una prova esatta di cosa siano lo svilimento e la retorica.

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bio: Luigi De Simone (1970) è nato a Napoli. Vive tra Berlino, Napoli e Palermo. Personali: Supportico Lopez, Napoli (2007); Potato Battery Studio, Berlino; Ground zero, San Martino Valle caudina (BN) (2004); Mimmo Scognamiglio, Napoli (2003). Tra le collettive: Beautiful Nature, Galleria Comunale d’Arte Contemporanea, Castel San Pietro Terme (BO) (2006); Napoli Presente, PAN Palazzo Roccella, Napoli (2005).

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 43. Te l’eri perso?Abbonati!

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