Non avevi scelta, dovevi diventare un artista…
Mio padre è un artista, mia madre una storica dell’arte. Sono cresciuto tra i colori di mio padre e i libri di mia madre. Di fortuito penso ci sia ben poco.
Descrivi il tuo lavoro.
Sensibilità e discrezione, nel guardare fuori ma anche nel guardarsi dentro. La discrezione è essa stessa elemento a cui prestare attenzione, avendo a che fare con quel silenzio che è l’attore principale del mio lavoro. Guardarsi dentro significa scoprire cose che appartengono anche ad altri. Ed è allora che la discrezione diventa necessaria, per poter leggere senza che l’atto della lettura intervenga a modificare ciò che si sta leggendo. Per non rompere i cocci, direi. Io penso ad una sorta di testo figurativo, dove le parole restano silenziose sfidando l’ordine del discorso; ad un involucro delle forme che rimane in qualche modo sospeso. Il discorso stesso è sospeso, anche se non rifiuta la storia né la struttura dei codici. Nei miei paesaggi non c’è nulla, ma quel nulla non è il niente: la sospensione è collocata dentro la limpida lucidità della geometria. Sono paesaggi che escludono ogni sociologia eppure, nella loro apparente desolazione, sono anche solidi.
Pregi e difetti nel lavoro…
Quella discrezione di cui sto parlando, sia come pregio che come difetto.
E nella vita?
Mi devo ripetere.
Chi conta davvero?
Persone importanti ce ne sono diverse. Ma ne cito una: Marcello Moscara. Penso che l’io sia imprescindibile per essere artisti, per riuscire a percepire e rielaborare a proprio modo ciò che ci circonda.
E i galleristi? Che rapporto hai con chi si occupa del tuo lavoro?
Siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Decisioni comuni, obiettivi comuni.
Sei soddisfatto di come il tuo lavoro viene interpretato?
Mi piace ascoltare qualsiasi lettura rispetto al mio lavoro. Mi piace che venga detto tutto e il contrario di tutto. Libertà assoluta: cosa c’è di più bello? Vorrei comunque riportare qui l’estratto di un testo critico di Ivan Quaroni: “Una luce apollinea, limpida, ma mai sentimentale, poetica, niente affatto emotiva. Si direbbe il lume di una razionalità ritrovata, che nel suo raccogliersi nella contemplazione di luoghi desolati, fuori dalle rotte e dai tracciati comuni, finisce per confondersi con l’afflato spirituale”.
Parlaci del tuo studio…
Il mio studio è senza confini. Non mi piace collocarlo in un luogo definito, reale. E’ la mia terra, è tutto quello che mi circonda e tutto quello che ho dentro. E’ quel luogo, pubblico e privato nello stesso tempo, dove ogni giorno trovare un impulso da poter rielaborare in qualcosa di personale.
Quale è la mostra più bella che hai fatto?
L’ultima, nella galleria Magrorocca a Milano.
Perché?
E’ la più sintetica, la più matura, la più “mia”.
Preferisci girare di città in città o lavorare sempre nel solito posto?
Preferisco lavorare nella mia città. Il legame con il territorio per me è fondamentale, è qualcosa che regala energia e tranquillità. Ho vissuto per sei anni a Milano ma poi ho deciso di tornare al sud. E oggi non riesco ad immaginarmi in una grande città, o comunque lontano dal mio piccolo paese. Direi che è il luogo in cui vivo la mia dimensione ideale.
Tra gli artisti emergenti chi ritieni abbia una marcia in più?
Mi piacciono Botto e Bruno, Massimo Bartolini e Marcello Maloberti.
bio: Marcello Moscara nasce nel ‘72 a Galatina (Lecce), dove attualmente vive. Si dedica alla fotografia diplomandosi all’Istituto Europeo di Design di Milano nel ‘97. La sua personale più recente, da poco conclusasi presso la galleria Magrorocca (Milano, 2005), s’intitolava E’ soltanto un discorso sospeso.
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