Categorie: parola d'artista

exibinterviste – la giovane arte | Nicola Verlato

di - 15 Ottobre 2004

Ci descrivi come nascono tecnicamente i tuoi lavori?
Faccio molti disegni preparatori, soprattutto studi compositivi. Una volta che mi sono chiarito le idee passo alla tela dove disegno a carboncino l’impianto generale. Poi realizzo dei modelli in plastilina che mi permettono un approfondimento tridimensionale della composizione e lo studio delle ombre. Da qualche anno utilizzo anche di programmi 3D (Maya, Poser, 3D Studio Max) con cui costruisco dei teatrini virtuali per calcolare luci, ombre, prospettiva, ecc.
Rifinito il disegno, ci lavoro ad olio in bianco e nero per ammorbidire il modellato, alzare le luci e approfondire le ombre.
A questo punto applico i colori primari a velature trasparenti (giallo indiano, lacca d’alizarina, e blu oltremare). Preparo così la base, l’“underpainting”, il comportamento della luce sugli oggetti senza tener conto del loro colore proprio.

Qualcosa di simile al direttore della fotografia nel cinema…
Esatto, muovo i fari sul set e sistemo le gelatine sugli spot.

Le tematiche che tratti, seppur mai esplicitamente dichiarate e trattate con ironia, per lo più attengono a problematiche sociali. C’è dietro una qualche ideologia o ti ispiri ai meri fatti di cronaca?
Da quando sono negli Stati Uniti, sento meno questa necessità di rappresentare le mie idee politiche nei quadri. Credo che in Italia avessi la necessità di dipingerle per la distanza angosciosa che sentivo fra il nostro paese, l’Europa, e gli ideali che in America vedo realizzarsi ogni giorno.

La tua tecnica è connotata da un classicismo ed una perfezione formale che non possono non far pensare ai grandi maestri dell’antichità europea. Quali sono i tuoi modelli?
Praticamente tutti gli italiani e i tedeschi del Quattro – Cinquecento: Michelangelo, Durer, Grunewald, Pontormo, Holbein, Leonardo, Raffaello, Antonello, Bellini, Rosso, Correggio, Parmigianino ecc., fino al primo ‘600. Poi ho amato molto Ingres, David e Girodet fra i francesi.

E chi hai odiato invece?
Gli impressionisti e il relativo seguito.

I tuoi lavori sono per solito molto grandi, perfino i disegni. Cerchi l’impatto scenografico, ti ispiri alle pale d’altare o che altro?
A me piace dipingere figure a grandezza naturale e composizioni molto elaborate; quando dipingo quadri piccoli è perché mi limito a una faccia o a una composizione più semplice. Credo che il grande formato produca un impatto emotivo particolare, che coinvolge lo spettatore come corpo, non solo come occhio che guarda: la figura nel quadro e il corpo dello spettatore si incontrano sullo stesso livello in uno spazio comune che è la superficie dipinta.

Non ti crea problemi a livello di mercato?
In fondo i quadri vengono comprati anche se grandi, o forse proprio per quello…

Non ho mai capito perché alcuni parlino del tuo lavoro in un’accezione iperrealistica. Non ti dà fastidio?
Il fatto è che non si può pretendere che certe persone, che probabilmente non hanno mai visitato un museo di arte antica, sappiano distinguere fra una foto fatta a mano e un dipinto che nasce dal disegno. Fortunatamente a New York le cose sono diverse: quando Roberta Smith recensisce Karel Funk sul N.Y.Times (personale alla 303Gallery n.d.r), non esita a paragonarlo a Pollaiolo o a Piero della Francesca, segno che li conosce, li sa riconoscere nel lavoro di un artista giovanissimo e non ritiene che questo sia un suo demerito, anzi.

Ti sei da poco trasferito Nella Grande Mela. Come mai?
Per molti motivi, che poi si condensano in uno solo: se l’Europa è vecchia, l’Italia è decrepita.

Ora che hai provato sulla tua pelle le due situazioni secondo te cosa manca al nostro sistema per essere competitivo?
La competitività! Tutti ne hanno il sacro terrore nel nostro paese. E in tutti i settori. Da noi le vecchie gallerie non mollano l’osso, favoriscono le nuove solo se asservite ai loro circoli di potere e gambizzano quelli che fanno un lavoro indipendente. Così gente che ha formato le proprie idee negli anni ‘80 e ‘90, non accettando una reale competizione con chi si affaccia sul mercato, non è in grado di produrre alcun tipo di rinnovamento e si accartoccia sulle proprie vecchie idee
Un mio collezionista norvegese, che compra in tutto il mondo, non considera neppure il mercato italiano, che reputa vecchio e stantio: “always the same fucking minimalism” (lui parla così).

Qual è il bilancio di questi primi mesi? Per gli artisti italiani Nyc è spesso un sogno: com’è lavorare negli States?
Il bilancio è estremamente positivo, anche se è davvero poco che sono qui. Sto lavorando con una galleria (Luxe Gallery n.d.r), ho venduto alcuni pezzi, ho partecipato ad alcuni group show, ne ho altri in programma e ho qualche rapporto di lavoro con alcuni critici. Se hai da dare qualcosa che può essere utile qui le cose sono molto veloci. La cosa però che considero più bella è la responsabilità che le persone si prendono nel giudicare il tuo lavoro: da noi sembra che nessuno sappia mai cosa dire, come se aspettasse un giudizio superiore cui conformarsi prima di aprir bocca.

E in Italia? Ti si vedrà ancora?
Mi hanno appena approvato l’application per l’artist Visa, per cui spero di potere continuare a lavorare negli Stati Uniti a lungo (non escludo di starci per tutta la vita…). Certamente continuo a lavorare in Italia con la mia galleria (Mudimadue), con cui ho vari progetti. Anzi, la sensazione è che da qui sia più facile lavorare anche in casa.

alfredo sigolo

bio
Nicola Verlato è nato a Verona, nel 1965, vive a New York. Lavora con la galleria Mudimadue di Milano/Berlino e con Luxe Gallery di New York.
All’attivo ha numerose personali e collettive in Italia e all’estero ed è presenza abituale nei progetti firmati da Luca Beatrice.
Nel ’96 partecipa alla XII Quadriennale di Roma e nel 1997 a Grado Zero, al Palazzo della Triennale di Milano. Nel 2000 espone a Trapassato futuro alle ex Cartiere Vannucci di Milano, a Generator, al Trevi Flash Art Museum, e a Sui Generis al P.A.C. di Milano; nel 2001, dopo Generator 2 e 3, viene selezionato per la Biennale di Tirana. Del 2002 è la partecipazione a Tensio alla galleria di Monfalcone e del 2003 quella alla Biennale di Praga e al Premio Agenore Fabbri per l’arte italiana al Palazzo delle Esposizioni della Mathildenhoe di Darmstadt (D). Dello stesso anno è la collettiva Bianco e nero italiano, curata da Achille Bonito Oliva per la sede berlinese della galleria Mudimadue.
Di quest’anno sono le prime uscite in collettive newyorkesi, in preparazione della prima personale prevista all’inizio del prossimo anno, e le recenti partecipazioni a Italian painters: a new landscape, collettiva di Beatrice presso la galleria Hof & Huyser di Amsterdam, e ad USA Today, group show dalla galleria s.e di Bergen, in Norvegia.
Tra le mostre personali si ricordano quelle allo Studio Tommaseo di Trieste (1996), alla galleria Totem Il Canale di Venezia (1998 e 2001) e alla galleria Mudimadue (Milano 2002 e Berlino 2003).


[exibart]


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