Vale la pena fare l’artista?
A Brera, Alberto Garutti ripeteva che in vita vale la pena di fare due cose: il missionario o l’artista.
La tua formazione?
Anzitutto Pescara, la mia città natale, dove penso di aver acquisito quella sensibilità che le è propria. Poi il liceo e, appunto, Brera, con Garutti e Giacinto Di Pietrantonio. Quindi il corso della Fondazione Ratti (il 2000 è stato l’anno della tostissima Marina Abramovic). Qualche workshop, uno molto divertente con Cucchi. A questo vanno aggiunte le persone che ho incontrato a Milano, città che allora era un bel banco di prova.
Qualcosa di meno lineare?
Lo strappo di un paio d’anni fa, in cui pensavo seriamente di lasciar perdere. Anche quella è formazione: in quei momenti tiri le somme e ti rendi conto se è il caso di andare avanti.
Un’immagine per introdurre la tua ricerca?
Se tutta l’umanità fosse stipata in un’unica area, la superficie che occuperebbe sarebbe paragonabile all’estensione della Valle d’Aosta. Messa in questi termini non è del tutto teorico pensare a un ripostiglio dove essa possa contemplare la sua assenza. Cerco di fare questo ma in meno spazio, mettendo in luce l’energia conforme alla natura umana che, come un vettore naturale, non ha velleità escatologiche. In più tendo a sottrarmi alla vista. Tranne, forse, nel progetto che sto portando avanti: un’autobiografia sotto forma di sottomarino nucleare, una specie di storyboard.
Dove e come lavori?
Bazzico come assistente lo studio romano di Daniela Papadia, Ivan Barlafante, Claudio Di Carlo e Emilio Leofreddi. Un bell’esempio di famiglia allargata; magari mi adottano e mi lasciano ritagliare uno spazio mio lì. Nella fase della progettazione lo studio è un handicap, un luogo asettico dove i germi dell’egocentrismo si muoverebbero incontrastati. Preferisco lavorare in una casa che condivido o nei luoghi di transito che quotidianamente ci troviamo a percorrere. Ho sempre dietro un quaderno e quando un progetto sta nascendo non sono mai solo. Non sono propriamente apporti, quelli esterni, quanto interferenze. Una condizione che fa sì che l’opera cominci a invischiarsi col mondo subendo influenze che non avevo calcolato e che mi fanno perdere un certo grado di controllo. Questo è un bene. Significa che il lavoro sta cominciando a relazionarsi da sé e che potrà andare in giro con le proprie forze.
La storia dell’arte la frequenti?
Tra gli italiani la sindrome di Stendhal è rara. Concepiamo la “artità” come un cibo in cui non è facile scindere un boccone dall’altro. Mi affascina l’arte quando riesce a diventare un sistema di pensiero. Com’è avvenuto con certe tensioni storiche che, ad esempio, si sono tradotte in Futurismo e Dadaismo. Poi direi Leonardo e Beuys. Dai contemporanei invece cerco di difendermi. Per non farmi suggestionare. Si tratta di una specie di distacco professionale. Non potrei amarne uno più di altri, semplicemente perché con essi (pecco di superbia, lo so) mi va di considerarmi in dialogo serrato.
Che rapporto hai con i critici e con la stampa?
I critici? O i curatori? Faccio un po’ di confusione… Di loro avevo un’idea astratta, come di strateghi. Invece i più intraprendenti tra loro si fanno chiamare organizzatori.
Hai vissuto a Milano e a Roma. Che differenze ci sono?
Roma è ancora nuova per me, mi sento come un bambino alla sua scoperta. Una cosa difficilissima qui è non sentirsi in vacanza. Milano, invece, dopo un po’ ti satura e aliena. Cosa che per il mio lavoro è un fattore positivo, per il mio benessere molto meno. Ho bisogno di periodi di riflessione in cui mi faccio penetrare e annientare dal luogo. Tutto poi si tramuta in forze, come una rivincita.
Un bel giro all’estero, quando?
Dal punto di vista professionale mi alletta, ma sono anche convinto che l’Italia attui una fortissima selezione sui suoi artisti. Riuscire a lavorare qui significa essere capaci di lavorare ovunque.
Come sei caratterialmente?
Sono poco furbo ma di un’ingenuità che non è mancanza di astuzia. Un difetto è senz’altro la latente megalomania.
E poi?
La sensualità, credo. L’erotismo inteso come atteggiamento di apertura all’esterno ma che, come tutte le forme di attrazione, oscilla pericolosamente verso il sadismo.
Ti disturba l’interesse economico che circonda l’arte?
Sono un giovane artista (che comincia a soffrire della sindrome di Peter Pan), non c’è un interesse economico consistente a motivare un avvicinamento al mio lavoro. Chi si accosta a me lo fa per una reale attenzione. È il periodo più elettrizzante della nostra carriera: i progetti portati avanti in questa fase hanno ancora il sapore dell’avventura. Magari suona un po’ bohémien, ma è sicuramente gratificante per lo spirito accentratore di un artista.
Cosa serve per riuscire a emergere?
Conosco circa una decina di artisti, semi-sommersi come me o con l’acqua alla gola. E che varrebbe la pena di conoscere. Mi piace pensare che siano sempre i “del tutto nuovi” a emergere. Non so cosa faccia funzionare il lavoro degli altri. Però so cosa lo uccide. Direi che quando la tua ricerca è subito afferrata, facilmente accettata o valutata come sviluppo inevitabile, significa che la sua forza sta svanendo. In quel senso cerco sempre di rivoluzionarmi.
articoli correlati
La mostra di fine corso del 2002 del Corso della Fondazione Antonio Ratti
bio: Paride Petrei nasce a Pescara nel 1978, vive a Roma. Tra le collettive: Index, Palazzo Sanità di Toppi, Chieti; I love Abruzzo, ex C.of.a., Pescara (2006); Occhi nuovi, Palazzo Scassa, Spoltore (PE); Il giardino, Museo Laboratorio, Città S. Angelo (PE);Godart, Museo Laboratorio, Città S. Angelo (PE) (2005); Premio Pescara, Museo Vittoria Colonna, Pescara (2004); Care-off, Viafarini, Milano, (2001); Mostra di fine corso, Fondazione Antonio Ratti, Como (2000).
[exibart]