In Espresso, Arte Oggi in Italia si legge “il mio lavoro in generale prende le mosse dalla fede che nutro nei confronti dell’incertezza, della condizione dubitativa come strumento di conoscenza”. Come si rapporta questa tua concezione del fare artistico alla performance del maggio scorso a Villa Medici?
A parte il gusto ludico, e anche un po’ autolesionista, insito in quel tipo di azione (qual è il bambino che non ha mai distrutto un proprio giocattolo?), ciò che mi interessa di più in tutta questa faccenda è che gli attori demoliscono i mobili applicando metodi particolari, accuratamente studiati e che non sono necessariamente i più comodi. Mai cedono a soluzioni rapide o ad una violenza scoordinata ma portano fino in fondo la loro missione con metodo, come se fossero animati da profonde convinzioni filosofiche e la loro operazione fosse preceduta da una ricerca in tal senso.
La performance nell’arte contemporanea è sempre un esperimento scientifico, uno spettacolo teatrale, un saggio ginnico, un test psicologico senza essere nessuno di questi. Non ne puoi valutare matematicamente la correttezza dei risultati, puoi solo sentirli. Immagino un pastore che si accorge della mancanza di una fra cento pecore, non le ha contate, è un po’ come se annusasse la matematica.
Avendo pensato alla cosa come a una sorta di esperimento, volevo anche che ci fosse qualcuno (non ero io a leggere) che ne leggesse una descrizione tecnica con un timbro di voce e un tono quasi da documentario televisivo.
Le tue opere sono caratterizzate dal gusto della trasformazione, dell’alterazione e da un’ambiguità di fondo (i ragazzi sui trampoli, il rinoceronte le zampe posteriori innaturalmente lunghe, il bancone da bar con le ruote). Si percepisce una componente di fragilità e anche una volontà destabilizzante nei confronti di tradizioni e schematismi. Questa fragilità investe anche il ruolo dell’artista, oggi?
Credo che l’ambiguità di fondo, di cui parli, presente nei miei lavori derivi dal mio tentativo di presentare sempre delle condizioni limite. Situazioni in cui basterebbe un soffio per cadere da una parte o dall’altra. Posizioni apparentemente stabili, a volte anche troppo massicce o viceversa e, si sa, quando una cosa la si porta all’estremo potrebbe facilmente ribaltarsi e trasformarsi nel suo opposto. Qualunque cosa si faccia la difficoltà è riuscire a rimanere sempre in bilico come un funambolo.
Dove ti condurrà la tua arte? E quali sono i tuoi progetti per il futuro?
Quando conquisti una tappa non sai mai quale sarà la successiva e tantomeno quella finale, se lo sapessimo risparmieremo un sacco di tempo.
Al momento il mio impegno maggiore è per un video che sto realizzando e che presenterò alla prossima Biennale di Istanbul.
Bio
Simone Berti nasce ad Adria, Rovigo nel 1966. Dopo aver frequentato l’Accademia di Belle Arti a Milano, negli anni ’90 vive con altri artisti tra cui Stefania Galegati, Sarah Ciriacì nello stabile di Via Fiuggi 12/7, formando l’omonimo gruppo. Ha all’attivo esposizioni in importanti strutture internazionali quali la Withechapel Art Gallery a Londra e il Kunstmuseum di Bonn e numerose gallerie italiane tra cui la Galleria Massimo de Carlo a Milano.
-Exibinterviste/La giovane arte è un progetto editoriale a cura di Paola Capata-
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Paola Capata
[exibart]
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"Quando conquisti una tappa non sai mai quella che sarà la successiva e tanto meno quella finale."
Parole vere dettate da esperienza di vita e dall'arte che vibra in lui, che può essere più o meno produttiva a seconda del momento.
Caro Simone Berti complimenti.