In cosa consiste esattamente il tuo lavoro?
Il mio lavoro consiste sul non riconoscimento da parte dell’uomo della storia come maestra di vita e quindi sul ripetersi della stessa. I temi che affronto sono questioni fondamentali quali il libero arbitrio, la guerra, la shoah. Il mio linguaggio è quello dell’installazione. Il soggetto della mia opera attraversa una paziente decostruzione analitica fino ad un ritorno al punto di partenza sotto forma di concetto, concetto però emozionalmente equivalente. Spesso il mio lavoro è volto a coinvolgere il pubblico quasi in una performance, pubblico del quale sorprendo le attese mettendolo di fronte ad un senso di imprevedibilità palesandogli una possibilità inquietante. Situazioni apparentemente rassicuranti nascondono un tranello, un virtuale coinvolgimento mortale dello spettatore.
Il disagio cui induci, raffinato e sottile, stimola una consapevolezza progressiva. Cosa ti aspetti da questo disagio?
Mi aspetto che il pubblico pensi.
Medico prima che artista: un cambiamento radicale. Parlami del tuo percorso.
Una laurea in Medicina nel ’91, poi ho esercitato in Italia, in America, in un’isola carcere. L’arte non è un mestiere, l’artista non è un tecnico, è un’esigenza profonda, una vocazione. Ho provato comunque due anni fa ad entrare in Accademia, non ci sono riuscita, ciò ha coinciso con la mia prima mostra personale.
Chi o cosa ritieni abbia influito sulla tua formazione?
Culturalmente il mondo ebraico, non tanto quello che mi circondava – appartenendo alla piccolissima comunità di Pisa – ma quello di cui mi sono circondata con filosofi, scrittori, artisti ebrei. E poi Bertrand Russel. Artisticamente sono riconoscente a Duchamp ed ai Surrealisti per le strade aperte all’arte contemporanea, ed al troncone contemplativo misticheggiante dell’Action Painting, conosciuto come Color Field Abstraction, troncone che ha aperto la via alle ricerche concettuali minimaliste degli anni Sessanta e Settanta.
Pensando al contesto romano il tuo lavoro si avvicina molto a quello di Fabio Mauri, maestro che da anni affronta il tema dell’Olocausto nel tentativo di superarne la rimozione. In cosa te ne senti vicina ed in cosa distante?
I temi di Mauri sono gli stessi, ciò ci accomuna, e da ebrea gli sono grata per il lavoro che ha fatto. Comunque il suo lavoro è molto diverso dal mio: lui l’Olocausto lo rappresenta come uno che l’ha vissuto. Lui c’era, io no.
La costruzione dei tuoi lavori è lenta e meticolosa. Parlami dei materiali che usi, e del significato che attribuisci loro.
Lavoro spesso col tessuto ed il ferro, cercando però di raffreddare ogni senso espressionista insito nella materialità, dando priorità alla forza del tema e non a quella della materia.
Cosa pensi di quello che vedi in giro?
Il mondo dell’arte non è cambiato, valgono le stesse regole ormai da molti anni. Anche le vite degli artisti si rassomigliano: di recente ho visto il film su Pollock e ho letto la biografia di Man Ray, ti ci riconosci. Ci sono artisti che espongono molto e dovunque, e vendono a tutti, ma che scompariranno dalla storia dell’arte così come è sempre successo. Appartenere troppo al proprio tempo, produrre ciò che la gente vuole, è un rischio, il rischio di essere digeriti dal proprio tempo. Non sei contemporaneo solo perché vivi artisticamente questo periodo. Scimmiottare l’arte del passato, magari quella rivoluzionaria dell’inizio del secolo, ti permette di vendere al grande pubblico, del cui bagaglio culturale e artistico fanno ormai parte la Metafisica, l’Espressionismo
Molti artisti hanno lavorato e continuano a lavorare sul tema dell’Olocausto. Cosa significa affrontare la questione ebraica, oggi, per una giovane artista ebrea? E a cosa stai lavorando ora?
Significa parlare di ebraismo oggi, anche politicamente di Israele, o di questo crescente inaccettabile antisemitismo. Per me parlare di Olocausto è comunque una necessità, il mio punto di partenza. Da lì provo a fare opere dove cerco di sintetizzare il dolore in uno stato mentale universale. Sto lavorando al dolore specifico, non solo ebraico, al dramma dell’umanità che la shoah rappresenta.
Dunque…se tu avessi una bacchetta magica?
Lascerei tutto come sta. La società, l’uomo, hanno bisogno del bene e del male, del razzismo, dell’ingiustizia, dell’odio contro cui lottare. In un mondo perfetto non esisterebbero più le emozioni, non ci sarebbe posto per l’arte e per i grandi pensatori.
bio
Ursula Franco nasce a Grosseto il 5 gennaio 1966. Dal 1999 si è trasferita a Roma, dove vive e lavora. Tra le principali esposizioni personali: Italoamericani Roma 2001, Jude, Centro di Documentazione e Ricerca Artistica Contemporanea Luigi di Sarro, Roma 2001, Un’opera di Ursula Franco a cura di L. Pratesi, Roma 2002, Farfalle e Libre Arbitre, a cura di C. D’Orazio, Rialto Santambrogio, Roma 2002, Fons vitae, a cura di Elena Paloscia, Pitigliano (GR), 2003.
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caro mio signiore,ma lei crede che il publico pensa?,ofre la tua richeza,epoi, lasha parlare.
IO, nessuno,no'n a-mai chestto qualchosa ,he so statto ringraziatto de tutta la tera.
VEDO ogni giorno,le mie creazioni; ,boni,ho cative schelte di loro.
MI riempionno de felicitta,ho mi profondono,...ne le tenebre
Tutto e solo humanno.
nesunno.