Categorie: parola d'artista

SENTI CHI PARLA

di - 2 Settembre 2015
Incontro Francesco Cavalli a Istanbul, pochi giorni prima dell’opening di “Salt Water”, la 14esima Biennale. Il nome dello studio di grafica e design Leftloft (di cui è fondatore insieme ad Andrea Braccaloni, Bruno Genovese e David Pasquali) da qualche anno lo trovate spesso dietro il “making of” di cataloghi e loghi di una certa rilevanza. Volete un paio di nomi? dOCUMENTA (13) e il Madre di Napoli. Cavalli sarà anche uno degli invitati il prossimo 5 settembre, in un talk dove la direttrice della Biennale Carolyn Christov-Bakargiev chiederà di raccontare come si è “attivata” quest’ultima kermesse sul Bosforo.  Dove nessuno cammina da solo.
Leftloft: mi racconti qualcosa dal principio?
«Ci conosciamo alla facoltà di urbanistica, al Politecnico di Milano. Poi prendiamo uno spazio in condivisione perché, come tutti i ragazzi, vogliamo fare cose insieme e cambiare il mondo. Capiamo che, sull’urbanistica si parla molto ma si fa poco. Così abbiamo iniziato a svicolare: nel 1997 siamo direttori della programmazione di Binario Zero, storico locale dell’Isola. Finita questa esperienza siamo passati alla grafica. Una notte alcoolica, visto che eravamo in un magazzino a sinistra in fondo ad un cortile, abbiamo deciso di chiamarci Leftloft. Nel 2000 siamo stati i primi a usare flash in Italia: facciamo il boom, ma non vogliamo essere una web-agency, e quindi passiamo i successivi 10 anni a cercare di fare tutto. Oggi, per fortuna, facciamo tutto davvero».

E l’arte l’avete cercata o è arrivata per caso?
«Veniamo intercettati per la prima volta da Ida Gianelli, per il Castello di Rivoli. Da lì conosciamo Carolyn Christov-Bakargiev, e poi arrivano Documenta, il Madre, ma in mezzo passiamo per Moleskine, il nuovo logo dell’Inter, il rebrand di Subito.it, la sede di SEL, e ora stiamo lavorando per Colmar. Non siamo mai stati bravi ad avere un piano. Volevamo fare cose insieme, un lavoro di gruppo che avesse una base di design che si aprisse alle altre discipline. Diciamo che il concetto potrebbe essere “Forma Contenuto Tempo Senso”. Rispetto al  mondo dell’arte ci sentiamo sempre un po’ fuori luogo, perché siamo borderline. Ci piace calarci nella co-progettazione e gli ambiti possono essere diversissimi. A San Siro, per esempio, siamo stati diverse settimane con un ufficio all’interno allo stadio. Lavoravamo con loro, parlavamo».
Che cosa vi interessa ?
«Dare forma alle cose, un minimo contributo per aiutare il Paese: è utile mettersi in  dialogo, trovare un metodo per intrecciare le competenze. Bisogna creare  integrazione: un grafico, uno sviluppatore e un fotografo dovrebbero sempre costruire insieme un progetto. Se l’arte è un fenomeno utile non solo a sé stessa, ma anche al cambiamento, anche il design può esserne parte. L’unico punto da tenere fermo è trovare un vero senso, con la possibilità che i lavori durino nel tempo».
Parliamo della Biennale: come nasce un progetto per una manifestazione del genere, e come si seguono le idee di una direttrice come Christov-Bakargiev?
«L’esperienza ci insegna che il design per questo genere di manifestazioni è quasi un fenomeno organico: non c’è una grande forza di volontà che mette in piedi un branding commerciale, ma vi sono tanti target a cui ci si rivolge da tenere presenti: la comunità dell’arte, le istituzioni e i due pubblici: quelli internazionali di addetti ai lavori e quello dei locali. Bisogna pensare a tutte le parti, anche se completamente diverse. E poi c’è il proprio ego: in fin dei conti siamo noi che facciamo questo lavoro e vogliamo metterci anche la nostra idea. Bisogna mettere in mostra la mostra senza mostrarla. Non è un caso, infatti, che le copertine siano senza grafica: è un po’ come dire “Per vedere e capire questi incontri e rincontri (un po’ come il filo seguito da Carolyn nello scegliere gli artisti) bisogna metterci la testa dentro».

Quindi, il lavoro con la direttrice, è stato proprio “comune”?
«Carolyn ci ha chiamato una settimana dopo la sua nomina: si è trovato un nome che non fosse un titolo: “Salt Water”. Il sale e l’acqua sono tutto: dal salario alla conformazione geofisica, ed è anche un modo per far vedere Istanbul dal mare. E visto che non si tratta di una fiera o simile abbiamo scelto di trovare una flessibilità, in maniera semplice, anche per far fronte ad una mostra dal budget ridotto».
Com’è gestire, da parte vostra, un team di lavoro ex novo ogni volta?
«Never walk alone: si impara a confrontarsi e ad arricchirsi anche con le difficoltà. Qui in Turchia era impossibile non lavorare insieme. Ma bisogna che ognuno sia contento del proprio lavoro, di quello che viene messo in pratica. Il team, in poco tempo, deve far quadrare una dimensione corale».
Ci racconti del catalogo?
«Il livello di attenzione dei lettori non si conosce mai, ma questo catalogo sarà un libro da leggere. Agli artisti è stato chiesto di scegliere un racconto, per formare un’antologia su carta molto leggera. Completa il tutto una sessione di disegni, uno per ogni artista. Una mostra che ha lavori in progress fino a poche ore prima dell’apertura ha bisogno di contributi paralleli che non siano così facili da trovare su Google, e per questo ancora più interessanti. Qui, oltre al catalogo di 615 pagine, c’è anche una guida piena di mappe – perché non è facile muoversi sui 35 spazi occupati dalla Biennale – dove Carolyn ha scritto una sorta di tweet per ogni artista. Sarà una pubblicazione molto meno “artish”, e più essenziale».

Quanto è durata la lavorazione?
«È iniziata ad aprile e poi c’è stato il processo lunghissimo dell’attesa nell’aspettare pezzi e disegni, in cui noi siamo stati cellule dormienti».
Finita Istanbul, ci vediamo a Torino?
«[ride] Speriamo. L’ambizione è la stessa, anche se il progetto è diverso. Torino sono due musei che diventano uno, per cui tutto quello che si impara sugli eventi, sul diventare invisibili, non privilegiare opere piuttosto che altre, la scomparsa del logo-brand e simili, andranno riviste. E bisognerà trovare soldi per un progetto, lavorare su lungo tempo».
Art director: chi decide? Quanto potere creativo avete?
«La “trasparenza dell’arte”, che mettiamo nelle copertine, penso sia un giusto concetto. Conta molto capire l’opera. All’artista si raccontano suggestioni, le volontà “comuni” per mettere in piedi un documento che possa essere davvero utile, essenziale, che possa parlare. C’è potere sì, ma non se ne abusa ed è necessario cooperare, ancora una volta: è una questione di responsabilità. E come dicono i giapponesi, “Se non è bello, non è giusto”».
Progetti futuri?
«Lanceremo la piattaforma LUFT, che in tedesco vuol dire aria. Non ci piace il concetto del “Ho fatto tutto ora mi serve un logo”. Vogliamo lavorare sull’organico, e sull’esperienza. Sulla crescita e il confronto. Anche per questo andiamo molto d’accordo con Carolyn».

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